— È dovere di un assistente — disse — sapere queste cose. E ora, se il tenente vuole sedersi alla sua scrivania, sarò felice di rispondere alle sue domande…
Andò ancora meglio di così. Non dovetti neppure fare le domande, perché il sergente Martels sapeva meglio del tenente quello che il tenente aveva bisogno di sapere. Questa era la strada per il circolo ufficiali; questi i permessi che avevo l’autorità di firmare; quello là sulla parete era il citofono, usato solo da un amico nell’ufficio del colonnello per avvertirci che il colonnello medesimo veniva dalle nostre parti. E in caso il tenente non apprezzasse il cibo della mensa, il tenente aveva sempre il privilegio di essere stato occupato m doveri di emergenza durante le ore di mensa, e di doversi accontentare di uno «spuntino» nella sala privata ufficiali. Il tenente, aggiunse con aria innocente, aveva anche il privilegio di portare con sé la propria assistente, qualora lo ritenesse necessario.
Perché mai, mi chiesi beatamente, avevo avuto tanta riluttanza ad abbandonare l’ossessiva scalata al successo del mondo pubblicitario, per venire in quel paradiso terrestre?
Be’, proprio un paradiso non era. Le notti erano ancora un inferno. Gli alloggiamenti «regolari» si rivelarono baracche di schiuma solidificata, circondate da trincee. L’unica «aria condizionata» di cui disponessero erano dei piccoli ventilatori a batterie solari, e le pareti di schiuma durante il giorno assorbivano ogni caloria dell’accecante sole del Gobi, per restituircele di notte. Poi c’erano gli insetti. C’erano anche gli incessanti versi notturni degli animali nei recinti fuori dal campo. E c’erano le ore insonni. miserabili, in cui pensava a quello che poteva fare Mitzi, e a chi si era preso il mio lavoro alla Taunton, Gatchweiler e Schocken. C’era anche il fatto che il calore del deserto prosciugava dal mio corpo le Mokie con la stessa velocità con cui le ingurgitavo, ed ogni giorno diventavo più magro e più teso. Il secondo giorno Gert Martels mi guardò allarmata. — Il tenente — disse — lavora troppo. — Nulla di più falso, naturalmente: doveva ancora venire un soldato da me per ricevere conforto spirituale. — Suggerirei che il tenente si scriva un permesso e si prenda una giornata di libertà.
— Un permesso per andar dove, in questo inferno? — sbottai, poi ci ripensai. Non avevo già avuto una conversazione simile a quella una volta… su Venere… con Mitzi? — Be’ — dissi ripensandoci, — immagino che fra dieci anni mi pentirei di non aver visto tutto quello che c’è da vedere. Solo che vieni anche tu.
Così, venti minuti più tardi, sedevamo schiena a schiena su una specie di carrettino a quattro ruote, con una tendina sulla testa, pedalando lungo la strada polverosa verso la metropoli di Urumqi. Automezzi militari ci passavano accanto ruggendo e sollevando ondate di polvere alte un paio di metri. Che bel divertimento! La conversazione era quasi impossibile, non solo perché guardavamo in due direzioni opposte, ma perché metà del temo dovevamo tossire per liberarci la gola dalla polvere, fino a quando Gert non tirò fuori delle specie di mascherine da chirurgo da metterci sul naso e sulla bocca.
Fortunatamente Urumqi (pronunciato U-RUM-ci… il che dice molto sugli Uygur) non era molto lontana. E non era neppure molto di niente, una volta arrivati. La strada principale aveva dei veri alberi, una doppia fila, ma sotto gli alberi c’era solo polvere gialla. Niente erba, niente fiori. C’erano una dozzina di Uygur, con mascherine di loro fattura, che scopavano le foglie cadute. Come se nell’aria non ci fosse già abbastanza polvere, quelli ne sollevavano a nuvole, in caso rimanessimo a corto. — Voglio una Mokie — gridai raucamente, e Gert si voltò a dirmi: — Resistete, tenente!
— Mi chiamo Tenny.
— Resisti, Tenny, siamo quasi arrivati. Laggiù, vedi? Spaccio Militare, e hanno tutte le Mokie che vuoi.
Infatti era così; e non solo quello: avevano un bar, e una tavola calda con cibi di marca, aperta a tutti i ranghi, e un circolo ufficiali con Omni-V via satellite. E toilette con lo scarico! E (questo vi dà un’idea di quale celestiale lusso fosse, dopo quarantott’ore sul campo) fu solo aver notato tutte queste cose, che mi accorsi dell’aria condizionata. — Quanti permessi posso firmarmi? — chiesi.
— Tutti quelli che vuoi — disse Gert, e ci dirigemmo per prima cosa alla tavola calda. Quando dissi che offrivo io, lei sembrò divertita, ma non sollevò obiezioni ci mangiammo panini con Tacchino del Fattore e Panevero, insieme a una mezza dozzina di Mokie, comodamente seduti a un tavolo vicino alla finestra, guardando sdegnosamente gli indigeni di fuori. — Ci sono posti peggiori di questo — annunciò Gert, ordinando un altro Caffeissimo.
Allungai una mano e le toccai i nastrini sul petto. Lei non si ritrasse. — Tu ne avrai visto qualcuno, vero?
La sua espressione si scurì. — Penso che la Nuova Guinea sia stato il peggiore — disse, come se il ricordo ancora le pesasse.
Annuii. Tutti sapevano della Nuova Guinea, e di come centinaia di indigeni erano morti nei disordini che si erano verificati quando il Caffeissimo e il Manzovero erano finiti.
— È un lavoro sacrosanto, Gert — dissi con voce piena di comprensione. — Non restano molte riserve di selvaggi. Spazzarle via è necessario… un lavoro duro, ma qualcuno deve farlo. — Lei non rispose. Bevve un sorso di Caffeissimo senza guardarmi. Dissi: — So che quello che ho fatto io non si può paragonare a quello che avete fatto voi veterani. Ma ho passato sei anni su Venere, sai.
— Vice console e addetto morale — disse lei annuendo. Lo sapeva.
— Be’, i Venusiani non sono molto meglio di questi selvaggi. Fanatici, antivendite, retrogradi… togli loro un po’ di tecnologia, e andrebbero benissimo in questa riserva! — Indicai con un gesto la strada fuori. Un gruppo di soldati semplici bighellonavano presso l’ingresso dell’albergo, cercando di attirare gli Uygur con Mokie, visori tascabili, Nic-O-Chew, ma gli indigeni si limitavano a scuotere la testa sorridendo, e se ne andavano. — Scommetto che la maggior parte non sanno neppure che esiste la civiltà. Vivono così da secoli.
Lei guardò la strada, con espressione indecifrabile. — C’è dell’altro, Tenny. Noi non siamo i primi invasori che vedono. Ci sono stati i Manciù, i Mongoli, gli Han, e sono sopravvissuti a tutti.
Tossicchiai… ma non per la polvere. — Invasori non è esattamente la parola che avrei scelto, Gert. Noi siamo civilizzatori . Quello che stiamo facendo qui è una missione importante.
— Importante lo è senza dubbio — disse lei secca, con un tono che mi colse di sorpresa. — L’ultima prima del grande assalto, eh? Non hai mai pensato che c’è una progressione logica: Nuova Guinea, Sudan, Gobi? E poi… — D’improvviso si interruppe e si guardò intorno, come se temesse che qualcuno potesse sentirla.
Questo potevo capirlo bene, perché stava dicendo cose che avrebbero potuto costarle care, se fossero finite alle orecchie della gente sbagliata. Ero sicuro che lei non le pensasse sul serio. Non nel fondo del suo cuore. Le truppe combattenti, la punta di lancia della civiltà, non potevano essere biasimate se ogni tanto si facevano venire delle strane idee. Nella società civile, discorsi del genere potevano portare a un sacco di guai. Ma qui… — Sei sotto tensione, Gert — dissi gentilmente. — Prendi un altro Caffeissimo, ti farà bene.
Lei mi guardò in silenzio per un momento, poi rise. — Va bene, Tenny — disse, facendo un cenno alla cameriera indigena. — Sai una cosa? Sarai un ottimo cappellano.
Mi ci volle un momento per rispondere… Per qualche ragione, non sembrava un complimento. — Grazie — dissi alla fine.
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