Frederik Pohl - Gli antimercanti dello spazio

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Sono passati trent’anni da quando Frederik Pohl inventò quei
che Kingsiey Amis nelle sue
mise al disopra dello stesso
di Orwell. Fu allora che dagli uffici di Madison Avenue le grandi compagnie pubblicitarie assunsero il controllo della Terra, ma fecero lo sbaglio di mandare un’astronave sul pianeta Venere. Oggi Venere è il rifugio dei refrattari e dei ribelli, il simbolo dell’anti-pubblicità, la bandiera dei nemici della produzione e del consumo. I rapporti tra i due pianeti si fanno ogni giorno più difficili. La situazione insomma è così tesa, che Frederik Pohl ha sentito la necessità di scrivere un nuovo romanzo sullo scottante argomento. E l’ha scritto.

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E il prossimo. E il prossimo. Per novecento volte. Ma avevamo bisogno di moltissimi candidati. Anche se c’erano quasi una dozzina di Agenzie con forti dipartimenti politici, non mancava lavoro per tutti. Sessantun legislature di stato. Novecento città grandi e piccole. Tremila contee. E il governo federale. Mettete tutto insieme, e mediamente c’era un quarto di milione di cariche elettive in concorso ogni anno. (Naturalmente solo una piccola frazione di queste erano abbastanza importanti — voglio dire, abbastanza costose — da meritare il tempo della T.G.&S.) Circa metà delle volte potevamo riciclare quelli già in carica, ma dovevamo comunque trovare ogni anno cinque o diecimila personaggi freschi da istruire, vestire, truccare, provare, dirigere… e forse eleggere. Di solito venivano eletti. Non aveva particolare importanza chi vinceva un’elezione, ma la T.G.&S. aveva una reputazione da proteggere. Perciò ci battevamo per i nostri candidati come se vincere o perdere facesse una vera differenza.

Prima di arrivare alla fine dei novecento, il thermos del «caffè» sul bracciolo della mia poltroncina era stato riempito due volte di Mokie, e il mio stomaco cominciava a rumoreggiare per i primi stimoli della fame. Salii ancora una volta sul palcoscenico, facendo segno ai superstiti. — Venite avanti — ordinai. Obbedirono prontamente; sapevano che per loro era un grosso colpo. Rinforzai questa consapevolezza: — Parliamo di soldi — dissi, e cadde un silenzio di tomba nella sala. — Un congressista è pagato quanto un redattore pubblicitario di nuova nomina. Un consigliere comunale prende poco meno. — Si sentì un rumore: non un rantolo, ma una sospensione del respiro, come se ognuno di loro contemplasse mentalmente il tipo di paga capace di innalzarli in un solo colpo oltre la classe dei consumatori. — E questo è solo il salario . È solo l’inizio. La parte più sostanziosa è costituita dagli onorari, le consulenze, gli incarichi — (non c’era bisogno che dicessi le bustarelle) — che si accompagnano alla posizione. E possono essere davvero sostanziose. Quanto? Be’, io conosco un paio di senatori che ogni anno guadagnano quanto un direttore generale. — Un brivido percorse la folla, e questa volta si sentirono veri rantoli. — Non vi chiederò se volete una cosa del genere, perché non credo che ci siano pazzi qui dentro. Vi dirò come arrivarci. Tre cose. Non impicciatevi di ciò che non vi riguarda. Lavorate sodo. Fate quello che vi viene detto. Quindi, se sarete fortunati… — li lasciai in sospeso un momento, prima di sorridere. — Per il momento tornatevene a casa. Ripresentatevi alle nove di domani mattina per ulteriori istruzioni.

Guardai l’orologio mentre uscivano. L’intera faccenda era durata poco più di quattro ore, e Dixmeister non la finiva di adularmi. — Uno splendido lavoro, capo! Sarms ci sarebbe restato una settimana a pensarci. E adesso — strizzò un occhio, — se non sono impertinente, conosco un posto dove servono vera carne, e qualunque distillato possiate nominare. Cose ne direste di un buon vecchio Martini…

— Il pranzo — lo interruppi, — sarà un panino nel mio ufficio, e altrettanto per te. Perché voglio questa sala piena di nuovo in novanta minuti!

Bene, così fu, o quasi, e trovammo altri settantun possibili candidati. Ma quando ordinai la stessa cosa per la mattina seguente, la Selezione Centrale poté mandarmene solo centocinquanta circa. Stavamo prosciugando le loro riserve più in fretta di quanto riuscissero a rimpiazzarle. Così uscii e gironzolai per la strada, da un distributore di Mokie-Koke a un altro, studiando facce, modi di camminare, gesti. Ascoltai conversazioni, ogni tanto cominciai una discussione, per vedere come reagiva il candidato. Poi tornavo a casa, o in ufficio, e guardavo i notiziari Omni-V, cercando del talento nella vittima di un incidente o in una madre piangente perché il figlio era stato derubato per strada… o anche qualcuno che aveva appena fatto una rapina, perché trovai uno dei migliori candidati al Congresso per il New Jersey fra i fermati dalla polizia dopo un tentativo di furto con scasso. Tenni Dixmeister sotto pressione perché non si lasciasse sfuggire di mano i particolari. Mi preparò un nastro con i candidati dell’Agenzia alla seconda nomina, e io visionai tutte le scene per scovare qualche tratto interessante, o qualche modo di fare di cui dovevano liberarsi, se volevano essere ripresentati da noi.

Uno mi diede da fare. Era il Presidente degli Stati Uniti, un vecchietto dall’aria simpatica con delle specie di bargigli che gli andavano dalla punta del mento al collo, e una faccia da mummia che aveva accompagnato la vita di tre quarti degli elettori. Aveva recitato la parte del papà nel remake porno per l’infanzia di Caro Papà … sapete, quello che mette sempre i piedi sugli escrementi dei cani e che scorreggia ogni volta che si china per raccogliere il fazzoletto. Era apparso sui notiziari mentre conversava con l’Alto Primo Segretario della Repubblica Liberista del Sudan. Una sequenza di venti secondi, ma il Sudanese era riuscito ad accendere due sigarette Verily, bere una tazza di Caffeissimo e rovesciarne metà sul suo nuovo vestito Starrzelius, in un accesso di tosse, mentre diceva: Oh, zi, zinor presidende, molde molde grazie per averci zalvado! — Ebbi un groppo alla gola pensando a quel piccolo selvaggio e a tutta la sua gente benedetta finalmente dal libero mercato… ma provai anche qualcos’altro. Non era il Sudanese. Era il Presidente. Non si era spostato abbastanza in fretta, e metà Caffeissimo gli era finito sulla giacchetta da cerimonia… E mi venne l’idea.

— Dixmeister! — sbraitai, e tre secondi dopo lui era sulla porta, in attesa di ordini. — Quel babbeo del monociclo. Come va?

— È caduto cinque volte questa mattina — disse Dixmeister cupamente. — Non so se ci riuscirà mai. Se volete continuare con lui…

— Certo che voglio!

Lui inghiottì. — Nessun problema, signor Tarb. È tutto sotto controllo. Prendiamo un paio di monociclisti e gli montiamo la sua faccia in…

— Dieci minuti — ordinai, e ci riuscii. Entro nove minuti e trenta secondi era di nuovo nel mio ufficio a dirmi che gli spezzoni erano pronti. — Vediamo — ordinai, e lui tutto orgoglioso mi fece vedere quello che aveva scelto.

Erano tutti buoni, dovetti ammettere. Quattro corse. In ognuna il vincitore era abbastanza simile nell’aspetto al nostro babbeo, e ogni volta c’era un primo piano del vincitore, sorridente e ansimante, a cui potevamo sostituire il nostro, nello spot per la sua elezione. Ma ce n’era una che era meglio delle altre, perché era proprio quella che cercavo.

— Vedi? — chiesi. Naturalmente no. Agitai un dito. — L’incidente — dissi con aria paterna. In uno degli spezzoni il quarto monociclista sulla dirittura finale aveva deviato disperatamente per evitare il terzo. A qualche metro dal traguardo era finito a terra, a gambe levate. La telecamera aveva zoomato su di lui per un rapido primo piano della sua faccia, scornata e umiliata, prima di tornare sul vincitore.

E lui continuava a non capire niente. — Lo metteremo in corsa per le primarie presidenziali — annunciai.

Questo lo fece restare senza fiato. — Ma non ha… non è… non è possibile…

— È quello che faremo — ripetei — e c’è un’altra cosa. Hai notato il ciclista caduto? Non ti ricorda qualcuno?

Lui fece tornare indietro il nastro, bloccò l’immagine, guardò. — No — disse perplesso. — Non mi pare. A meno che… — trattenne il fiato. — Il Presidente ? — Annuii. — Ma… ma è nostro . Non possiamo sconfiggere un nostro uomo…

— Quello che non possiamo, Dixmeister — scattai, — è permettere che il nostro uomo perda… chiunque sia. Ho detto «le primarie». Se il Presidente le vince, bene, avrà un’altra occasione. Ma se il monociclista lo supera, perché no? E useremo questo nastro! Monta la faccia del Presidente su quello che è caduto… è sufficiente un solo un flash, abbastanza per suggerire che è caduto sul traguardo… poi pensiamo allo spot del ragazzo.

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