Sandy dovette anche lottare con le piccole bestie volanti che sembravano in grado di penetrare tutti i suoi abiti per pizzicarlo (che si trattasse di “zanzare”?) e a un certo punto iniziò ad avere dei seri dubbi sul suo destino. La situazione era decisamente preoccupante.
Come se non bastasse, Sandy trovava anche che tutto ciò non fosse affatto giusto. Nulla di ciò che gli era stato insegnato nel corso di quegli anni lo aveva preparato a una simile esperienza. Certo, aveva sentito parlare di “condizioni meteorologiche”; si erano tenute intere lezioni in proposito, e i vecchi programmi televisivi registrati erano pieni di informazioni al riguardo, con tanto di mappe con le “isobare”, le “perturbazioni” e così via. Trovarcisi in mezzo, però, non era esattamente la stessa cosa. Né Sandy né nessun altro fra i 22.000 hakh’hli a bordo della grande nave aveva mai provato un’esperienza del genere.
E non si trattava certo di un’esperienza emozionante o interessante per lui. Com’era possibile orientarsi in simili condizioni? Quando aveva studiato il percorso sull’astronave, gli era sembrato piuttosto facile da seguire. Vi erano le montagne, e vi era una valle che vi passava in mezzo. La strada alla quale avrebbe dovuto giungere si trovava esattamente in mezzo alla valle. Ma come poteva stabilire dove si trovavano le montagne se la pioggia gli impediva di vedere alcunché al di sopra degli alberi? Naturalmente, aveva già perso di vista la navetta, che doveva trovarsi alle sue spalle. Sandy si fermò ed estrasse faticosamente la radio dalla tasca interna del suo giaccone. — Sono Sandy — disse nel microfono. — Datemi la mia posizione.
Rispose immediatamente la voce di Tania. — Sei fuori strada — disse seccato. — Devi andare a sinistra di tre dodicesimi. Come mai ci stai mettendo tanto? Dovresti già essere sulla strada asfaltata.
— Credevo di esserci — rispose Sandy amareggiato chiudendo il contatto. Pensò che avrebbe avuto nuovamente bisogno di usare la radio per stabilire la sua posizione, quindi decise di fissarsela al collo con la cinghia, piuttosto che infilarla nuovamente nella tasca interna. Continuando a sudare e borbottando fra sé, riprese il suo faticoso cammino fra il fango, la pioggia e i rami inzuppati d’acqua che gli frustavano il volto in continuazione.
Non si era assolutamente aspettato un simile ritorno al suo pianeta d’origine.
Se le condizioni erano pessime alla luce del giorno, diventarono ancora peggiori non appena cadde la notte. Il sole scomparve rapidamente dietro l’orizzonte, e gli ultimi bagliori del cielo vennero sostituiti altrettanto rapidamente da una minacciosa oscurità. Non vi era alcun tipo di luce. Oscurità completa! Anche questa era un’esperienza completamente nuova per Sandy, e forse si trattava della peggiore in assoluto fino a quel momento.
E fu proprio allora che Sandy scivolò su una pozzanghera di fango particolarmente viscido e si ritrovò a rotolare in un ammasso di cespugli pungenti e inzuppati d’acqua.
Ma questo non era nulla in confronto a quanto scoprì un attimo dopo. Quando prese la radio per ottenere un nuovo rilevamento della sua posizione, si rese conto che non funzionava più. Nel corso della caduta si era bagnata, e ora non dava più segni di vita.
La tempesta proseguiva imperterrita, ma in uno strano, solenne silenzio. Sandy si tastò l’orecchio e si rese conto che anche il suo apparecchio acustico era stato danneggiato nella caduta. Lo estrasse e lo batté ripetutamente sui pantaloni zuppi di pioggia e sudore, ma non servì a nulla. Con un gesto irritato, si infilò in tasca l’apparecchio e si guardò attorno.
Secondo i rilevamenti della navetta, la strada che passava attraverso la valle doveva trovarsi a non più di tre chilometri di distanza dal punto in cui erano atterrati. E non vi potevano essere dubbi riguardo al fatto che, nel giro di cinque ore di faticosa marcia a zig-zag, Sandy avesse percorso un tratto almeno equivalente. Di conseguenza, non vi potevano essere dubbi nemmeno riguardo al fatto che avesse deviato nuovamente dal suo percorso ottimale.
In quel momento, Sandy Washington si rese conto di essersi perso.
Tuttavia, non si trattava di una constatazione molto utile. Non poteva farci proprio nulla. Non vi era modo di tornare alla navetta, poiché a quel punto non aveva la benché minima idea di dove si trovasse. Certo, poteva andare avanti, e in fondo era proprio quello che voleva fare a tutti i costi, solo che a quel punto non aveva più nemmeno una pallida idea di dove potesse essere “avanti”.
Con un po’ di ritardo, ricordò anche che secondo gli studiosi hakh’hli in Alaska vi erano diversi animali selvaggi, alcuni dei quali (si chiamavano “lupi” e “orsi grizzly”) erano anche piuttosto pericolosi per l’uomo.
Sandy si guardò attorno; la rabbia che già provava da tempo iniziò a trasformarsi in paura.
Fu allora che si rese conto che, in lontananza alla sua destra, vi era un punto in cui l’oscurità non sembrava essere così solida e impenetrabile come da tutti gli altri lati. Non si poteva parlare di una luce. Certamente non era nulla di particolarmente luminoso, e mentre guardava si rese conto che era di colore leggermente scarlatto. Comunque fosse, si trattava di qualcosa di diverso rispetto all’impenetrabile oscurità che lo circondava.
Sandy non vide l’edificio finché non vi sbatté contro. La luce che aveva visto in lontananza non era altro che un disco color cremisi appeso sopra la porta d’ingresso che emetteva un debole bagliore simile a quello di una brace ardente. Mentre camminava lungo il muro esterno dell’edificio, sbatté dolorosamente contro qualcosa di metallico dotato di ruote. Che si trattasse di un’automobile”? Sandy sapeva che cosa erano le automobili, ma non ne aveva mai vista una con attaccato dietro uno strumento pieno di punte acuminate. Il dolore gli fece sbattere le palpebre violentemente, ma proseguì comunque zoppicando.
Non appena trovò la porta, la spinse e questa si aprì.
All’interno dell’edificio vi erano altri tre dischi che emettevano lo stesso debole bagliore rossastro fissati sul basso soffitto di un corridoio sul quale si aprivano diverse porte. Sandy sentì dapprima un forte odore di animali, poi percepì del movimento, dei respiri profondi e il suono di mascelle in azione. Non era solo.
Un attimo dopo, nonostante la semioscurità, capì con quali esseri viventi stava condividendo quello spazio. Aveva già visto in innumerevoli film terrestri quegli occhi enormi e pazienti, quelle corna piccole e torte e quel lento e costante movimento delle mascelle. Si trattava di mucche.
Perlomeno una delle sue preoccupazioni maggiori si dileguò. Le mucche, ne era quasi certo, non mangiavano gli esseri umani.
Completamente esausto e letteralmente inzuppato d’acqua, si sfilò il giaccone e gli stivali. Il solo fatto che vi fosse un edificio implicava che vi fossero anche degli esseri umani nelle vicinanze. Sandy sapeva benissimo ciò che avrebbe dovuto fare; doveva trovare gli esseri umani, stabilire un contatto con loro e proseguire nella sua missione.
Solo che in quel momento Sandy era troppo stanco per pensare ai suoi doveri, quindi si accasciò su un mucchio di vegetazione secca che si trovava lì. Pensò che avrebbe fatto meglio a rimanere sveglio per dare il benvenuto a chiunque “possedesse” quelle mucche nel caso che arrivasse lì… Ma proprio mentre ci pensava, la stanchezza ebbe il sopravvento e si addormentò come un sasso.
Si svegliò all’improvviso, rendendosi immediatamente conto di dove si trovava… nonché del fatto che non era solo.
Sbatté le palpebre. Davanti a lui torreggiava una figura con indosso un paio di pantaloncini sfrangiati e lunghi capelli neri. Le rivolse un sorriso imbarazzato, poi fu come se lo colpisse una scarica elettrica che gli tolse il respiro e la parola: la persona che aveva di fronte era una femmina. Una femmina terrestre.
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