Frederik Pohl - Il lungo ritorno

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Sono gli Hakh’hli. Sono alieni. Si nutrono di carne umana. Il lungo viaggio nello spazio era alla fine. Sandy, l’umano cresciuto su un’astronave degli extraterrestri Hakh’hli, era pronto al ritorno sulla Terra. Gli alieni erano animati dalle migliori intenzioni.. Solo la scienza Hakh’hli poteva risolvere il problema di trasformare i pianeti. I terrestri avevano bisogno di quel contatto. Ma c’era da fidarsi?

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Vi erano diverse forze contrarie da contrastare: l’orbita ellittica solare andava trasformata in un’orbita planetaria polare, e la velocità di fuga iniziale andava annullata. I propulsori del modulo di atterraggio stavano spingendo a tutta forza. Dopo circa trenta secondi dal momento in cui il modulo si era staccato dalla nave madre, Sandy iniziò a vomitare. Non poté farne a meno. Non si era mai sentito male in vita sua per il movimento. In verità, non aveva mai provato un movimento del genere, almeno non in uno spazio chiuso.

I sei hakh’hli, il cui orecchio interno era strutturato in maniera completamente differente, non soffrivano di mal di mare. Alla lunga, però, questo particolare anatomico non li aiutava più di tanto, poiché dal momento in cui la navetta avrebbe fatto il suo ingresso nell’atmosfera, i loro corpi sarebbero stati sballottati più velocemente di quanto i loro stomaci potessero sopportare.

Come se tutto ciò non bastasse, all’interno della navetta vi era anche una certa animosità generale nei confronti di Sandy. — Cerca di controllarti, Mingherlino! — sbottò Demmy. — Woof! Augh! — si lamentò Elena.

— Maledizione, Sandy, perché non usi un sacchetto, o qualcosa del genere? — domandò Polly dal suo sedile di pilotaggio. Poi però Polly tacque, poiché erano appena entrati nella fascia dei relitti. Grazie all’approccio programmato erano riusciti a evitare gli oggetti più grandi in orbita intorno alla Terra, ma non vi era la certezza di evitarli tutti. Fortunatamente, la navetta era dotata di un radio localizzatore in grado di individuare qualsiasi oggetto che si trovasse sulla loro traiettoria e di azionare automaticamente i propulsori laterali per evitare la collisione. Quando anche questa misura non risultava sufficiente per l’elevata velocità, entravano in funzione i repulsori magnetici, che attutivano notevolmente l’impatto.

Ciò nonostante, tutti potevano sentire una serie di piccoli ma preoccupanti colpi, come se qualcuno stesse lanciando dei ciottoli sulla superficie esterna della loro navetta. Si trattava di frammenti metallici che colpivano la navetta a bassa velocità. Poi vi erano anche altri suoni, tonfi più deboli e secchi, dati da frammenti ancora più piccoli che riuscivano a perforare la pellicola esterna fissata attorno allo scafo. Un’ape-falco passò davanti alla faccia di Polly, facendola sbottare: — Toglietemi di torno quest’ape! Come cavolo posso pilotare questo arnese se ci sono insetti che mi volano negli occhi?

L’ape-falco però volò via da sola, non appena la navetta compì una secca virata per evitare un altro relitto. Un attimo dopo, si ritrovarono fuori dalla fascia di relitti pericolosi; il modulo di atterraggio imboccò la lunga traiettoria discendente che lo avrebbe portato fino alla pianura la cui immagine radioriflessa era già evidenziata sugli schermi. Per quanto frastornato e nauseato, Sandy percepì che Polly continuava a sibilare con fare agitato. Strano, pensò, poiché quella doveva essere la parte più facile del volo. La loro velocità era già diminuita notevolmente, e i rilevatori automatici avrebbero dovuto compensare tutti i vuoti d’aria e le variazioni di pressione in prossimità della superficie. Solo che, apparentemente, non stavano funzionando. — Per essere solo un piccolo, stupido pianeta — ringhiò Polly — questa tua maledetta Terra ha un clima realmente pessimo! — La navetta sussultò ancora una volta con violenza, come per sottolineare le sue parole. La velocità del modulo di atterraggio hakh’hli era scesa a poco più di cento chilometri orari, ma i venti esterni erano ancora più veloci, e facevano ballare il piccolo velivolo come se fosse un giocattolo.

Più che far atterrare la navetta, Polly la fece praticamente schiantare al suolo. Tuttavia, la navetta hakh’hli era stata costruita per resistere. Non appena toccò terra, i propulsori anteriori si accesero automaticamente per frenarne la corsa, schiacciando tutti i passeggeri contro le reti protettive dei sedili. La navetta si fermò nel giro di poche centinaia di metri, a una certa distanza dalla barriera di alberi spogli e striminziti.

— Siamo arrivati — annunciò Polly.

Non sembrava, però. Anche da fermo, infatti, il velivolo continuava a oscillare nel vento. Polly emise un paio di rutti preoccupati mentre premeva i pulsanti di accensione degli schermi per la visione esterna, che si illuminarono immediatamente sopra il pannello dei comandi. Uno mostrava una simulazione ripresa dallo spazio del punto dove erano atterrati, mentre l’altro mostrava le immagini dal vivo del paesaggio all’esterno della navetta. L’immagine virtuale era glaciale, completamente bianca e statica, mentre quella dal vivo mostrava una scena alquanto movimentata, caratterizzata da una forte pioggia quasi orizzontale e da un bosco di abeti in balia del vento.

La stella a sei punte che indicava la loro posizione si trovava nello stesso punto in entrambe le immagini, e appariva e scompariva a intermittenza per segnalare che l’atterraggio era avvenuto nel punto programmato. — Perché siamo in mezzo a una tempesta? — domandò Obie un po’ intimorito. — Sei atterrata nel punto sbagliato?

— Il punto è quello giusto — borbottò Polly con un tono a metà fra il perplesso e l’irritato. — Ma non capisco dove sia andata a finire tutta la “neve”.

Circa due ore dopo, Sandy si ritrovò davanti allo sportello aperto della navetta con indosso il pesante giaccone e gli stivali da neve. Si toccò la tasca dove aveva riposto la fotografia di sua madre, ma Polly non era certo in vena di sentimentalismi. — Datti una mossa, Mingherlino! — lo spronò, dandogli una leggera spinta.

Sandy si mosse. Mentre usciva si aggrappò alla ringhiera della scaletta. Il dislivello dallo sportello della navetta al suolo era di soli tre o quattro metri, ma nonostante la debole gravità terrestre avrebbe potuto comunque farsi male se si fosse lasciato cadere. Una volta a terra si incamminò verso il retro della navetta, sentendo una leggera zaffata di alcol proveniente dai propulsori. Si orientò, stabilendo la direzione in cui avrebbe dovuto trovarsi la strada più vicina, quindi iniziò a incamminarsi attraverso il fango e la pioggia.

La situazione non era come avrebbe dovuto essere.

Vi era qualcosa di decisamente sbagliato rispetto ai piani originali della missione. Del resto, non vi potevano essere dubbi sul fatto che la regione della Terra sulla quale erano atterrati fosse effettivamente l’Alaska; il dato era stato confermato dagli strumenti di navigazione della navetta. Ma allora perché il paesaggio non era quello previsto? L’Alaska, assieme a tutto il resto del pianeta, era stata osservata e studiata a fondo dagli esperti hakh’hli nel corso della loro prima visita a quel sistema solare. Secondo i risultati di quegli studi doveva trattarsi di una regione fondamentalmente fredda, a parte forse nel corso di un brevissimo periodo estivo o in certi punti particolarmente bassi. Gli studiosi hakh’hli avevano garantito loro che vi sarebbe stata “neve”, ma se una cosa del genere esisteva sulla Terra — e le migliaia di programmi televisivi ai quali avevano assistito sembravano testimoniare che fosse effettivamente così — non si trovava certamente in quel luogo.

In quel luogo infatti non vi era altro che un mare di fango, una temperatura abbastanza elevata da far sudare copiosamente Sandy nei suoi pesanti abiti e una tempesta terribile, accecante e spaventosa.

Una tempesta del genere non poteva essere una cosa di tutti i giorni, si disse Sandy. Nella sua ansiosa ricerca della strada, fu costretto a scavalcare e ad aggirare decine di alberi sradicati; si trattava di alberi enormi, lunghi anche fino a 30 metri dalla cima alle radici incrostate di terra che veniva lavata via costantemente dalla forte pioggia. I crateri lasciati dagli alberi sradicati sembravano essere freschi.

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