Che cosa significa tutto ciò?
Già, che cosa significa… Ricordo un gruppo di giovani in gita scolastica che, al tempo in cui ero assistente di Gibarian, venne a visitare l’Istituto di Solaristica di Aden. I ragazzi, dopo aver attraversato una sala laterale, che era la biblioteca, furono condotti nell’aula magna, dalle pareti ricoperte in gran parte di cassetti pieni di microfilm. C’era lì una piccola documentazione d’interni di simmetriadi da gran tempo scomparsi, costituita da più di novemila… non già disegni e rilievi, ma bobine cinematografiche. Ed ecco che una ragazzina rotondetta di circa quindici anni, con gli occhiali e dall’aria intelligente, salta fuori con la domanda: «A che serve?».
Nel silenzio imbarazzato che seguì, l’insegnante accompagnatrice diede un’occhiataccia all’alunna impertinente; ma nessuno dei solaristi (io fra gli altri) che scortavano il gruppo trovò una risposta. Infatti i simmetriadi non si ripetono, né si ripetono i fenomeni che li riguardano. A volte l’aria fa da isolatore d’ogni suono. A volte il coefficiente di rifrazione aumenta o diminuisce. In certi punti appaiono delle pulsazioni, con variazioni ritmiche di peso, quasi che il simmetriade avesse un cuore gravitante. A volte le bussole giroscopiche degli scienziati impazziscono, gli strati di ionizzazione aumentano o diminuiscono… si potrebbe continuare con gli esempi all’infinito. Del resto, se mai il segreto dei simmetriadi venisse svelato, rimarrebbero pur sempre gli asimmetriadi: questi nascono nello stesso modo, ma con altro fine, e di essi non si può vedere altro che fremiti, scintillii e splendori; si sa soltanto che sono la sede di processi vertiginosi, a una velocità che sfida le leggi fisiche, i cosiddetti «fenomeni quantici giganti». Le loro analogie matematiche con certi modelli di atomo sono comunque talmente instabili e impalpabili che certi studiosi hanno ritenuto che questa fosse una caratteristica marginale o casuale. Gli asimmetriadi vivono incomparabilmente meno degli altri, appena qualche minuto, e hanno una fine ancora peggiore. Con l’uragano, che li invade e li fa scoppiare, si riempiono a velocità incredibile di un liquido che gorgoglia orrendamente sotto l’involucro, e tutto sommerge in un lurido ribollire; poi l’esplosione, accompagnata da un’eruzione vulcanica fangosa, proietta una colonna di macerie che ricadono a pioggia sulla superficie dell’oceano sconvolto. Capita di vedere una parte di queste macerie sotto forma di ossa infangate e frammenti cartilaginosi appiattiti e rinsecchiti, sparsi in mezzo alle onde a distanza di parecchi chilometri dal luogo dell’esplosione.
Gruppo a parte formano le creazioni che si staccano completamente dall’oceano vivente per un certo periodo. E’ stato quasi sempre impossibile identificarle e di rado si sono potute osservare. La prima volta che si trovarono dei frammenti di questi «indipendenti» furono identificati, a torto, come poi si vide, come esseri viventi nelle profondità oceaniche. Certe volte, ma raramente, si riuscivano a vedere sugli scogli delle isole branchi di foche che riposavano prendendo il sole e che poi scivolavano per entrare in mare, diventando tutt’uno con esso.
Si continuava, insomma, a girare nel circolo chiuso dell’immaginazione umana, fin dal primo contatto…
Le spedizioni hanno fatto centinaia di chilometri nelle profondità dei simmetriadi, lasciando apparecchi di registrazione, macchine cinematografiche automatiche; gli occhi artificiali dei satelliti hanno registrato lo spuntare dei mimoidi e dei longhi, il loro maturare e la loro morte. Le biblioteche si riempivano, si ingrossavano gli archivi, e in cambio di questo bisognava pagare un prezzo terribilmente alto. Settecentodiciotto uomini erano morti durante i cataclismi per non essersi ritirati in tempo dai colossi che erano condannati alla distruzione; centosei perirono in una sola catastrofe, rimasta famosa poiché vi trovò la morte lo stesso Giese, che aveva allora settant’anni. In quell’occasione la spedizione stava studiando un simmetriade, chiaramente caratterizzato come tale, che fu distrutto invece con un processo tipico degli asimmetriadi. Settantanove uomini, con macchine e apparecchi, vestiti di tute corazzate, furono inghiottiti, nel giro di pochi secondi, da un’eruzione di fango attaccaticcio; gli altri ventisette furono colti dalle eruzioni mentre volavano intorno alla massa con elicotteri e aerei. Quel luogo, quell’incrocio del 42esimo parallelo e dell’89esimo meridiano, è indicato sulle carte come «Eruzione dei Centosei». Ma il punto esiste solo sulle carte; la superficie dell’oceano non ne serba traccia.
Fu allora che, per la prima volta nella storia delle ricerche solaristiche, si levarono voci a chiedere che si ricorresse alle esplosioni termonucleari. Sarebbe stato peggio di una vendetta: volevamo distruggere ciò che non capivamo. Tsanken, il sostituto di Giese nel gruppo di riserva, che si era salvato solo grazie a uno sbaglio (il suo relais automatico aveva fornito una falsa segnalazione sul luogo nel quale si trovavano gli esploratori del simmetriade) vagava nel suo apparecchio sopra l’oceano e arrivò sul luogo della catastrofe pochi minuti dopo l’esplosione, di cui riuscì a vedere il fungo nero. Nel momento in cui si stava decidendo in merito al ricorso a un’esplosione termonucleare, minacciò di far saltare la stazione assieme ai diciotto superstiti che vi si erano rifugiati.
Ufficialmente non è mai stato riconosciuto che questo ultimatum abbia determinato l’esito delle votazioni, ma è da credere che fosse così. I tempi delle spedizioni tanto numerose erano finiti. La costruzione della stazione stessa, condotta dai satelliti, era stata un’impresa tecnica colossale, della quale la Terra poteva essere orgogliosa; ma l’oceano, nel giro di pochi secondi, era capace di crearne un’altra un milione di volte più grande. Fu costruita una specie di disco, di dodici metri di diametro, a quattro piani nel mezzo e due ai margini.
Sospesa, da cinquecento a millecinquecento metri sopra l’oceano, possedeva come forza motrice l’energia dei gravitatori, che compensano la forza d’attrazione. Era dotata di tutte le apparecchiature proprie alle normali stazioni e ai grandi satelliti di altri pianeti, ma attrezzata con antenne radar speciali, sensibili a ogni eventuale cambiamento sulla superficie dell’oceano; i radar facevano scattare un’energia supplementare che spediva il disco nella stratosfera al primo segno della nascita di una nuova creazione vivente.
Adesso la stazione era in realtà disabitata. Da quando, per motivi che non avevo potuto ancora sapere, avevano rinchiuso gli automi nei magazzini interni, si poteva circolare per tutti i corridoi senza incontrare nessuno. Come in un relitto vagante, nel quale le macchine erano sopravvissute alla morte dell’equipaggio.
Quando rimisi a posto sul ripiano il nono volume della monografia di Giese, mi sembrò di sentire tremare la moquette sotto i piedi. Mi fermai di botto, ma la vibrazione non si ripeté. La biblioteca era perfettamente isolata dal resto della costruzione, le vibrazioni potevano avere una sola spiegazione. Qualche razzo era partito dalla stazione. Questo pensiero mi riportò alla realtà. Non ero del tutto deciso a uscire in volo, come voleva Sartorius. Comportandomi come se accettassi pienamente il suo piano, mi limitavo a rimandare la crisi; ero sicuro del fatto che sarei arrivato a uno scontro, poiché ero intenzionato a fare di tutto per salvare Harey. Il punto stava nel sapere se Sartorius avesse una possibilità di successo. La sua superiorità rispetto a me era immensa.
Come fisico conosceva il problema dieci volte meglio di me.
Io, paradossalmente, potevo solo contare sulla perfezione delle soluzioni che trovava l’oceano. Durante l’ora seguente lavorai assiduamente sui microfilm, cercando qualcosa che potessi capire nel mare di quella matematica, in cui mi mancava qualsiasi punto di riferimento e del cui linguaggio si serviva la fisica dei processi neutrinici. Inizialmente mi sembrò un’impresa disperata, poiché di teorie sui campi neutrinici ce n’erano cinque, chiaro segno che nessuna era perfetta.
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