Fu subito evidente che il materiale base era sempre quella pallida massa che, scagliata in aria, invece di ricadere rimaneva sospesa, collegata al fondo da una specie di cordoni ombelicali grazie ai quali si spostava pigramente, restringendosi o allargandosi, e componeva con disinvoltura disegni complessi. Un aereo, una rete o un palo venivano riprodotti con precisione. Invece i mimoidi non riproducevano esseri viventi, nemmeno le piante che gli studiosi avevano portato su Solaris per esperimento. Per contro, i manichini o le statuette, di legno o di qualsiasi altro materiale, venivano subito copiati.
Qui, sia detto tra parentesi, si arrestava purtroppo l’eccezionale «docilità» dei mimoidi nei confronti degli esploratori solaristi. I mimoidi maturi avevano giornate di pigrizia durante le quali pulsavano lentamente. Questo battito non era neanche visibile a occhio nudo, poiché il ritmo di una singola fase di pulsazione avveniva in un arco di due ore: lo si era scoperto solo attraverso i filmati.
In tali circostanze un mimoide, specialmente se vecchio, si prestava perfettamente a essere visitato, poiché il suo zoccolo di sostegno, immerso nell’oceano, come le protuberanze di tale base, aveva una relativa solidità che permetteva all’uomo di posarvisi con sicurezza.
Si poteva stare nelle vicinanze di un mimoide anche durante le sue giornate «lavorative», ma la visibilità era ridotta a zero, visto che, come neve bianca, la materia colloidale cadeva dalle lacerazioni del tegumento sospeso sopra le protuberanze. Del resto, da vicino, le forme riprodotte dal tegumento non si potevano riconoscere, a causa delle dimensioni gigantesche, nell’ordine di grandezza delle montagne. Inoltre uno spesso strato di neve colloidale ricopriva rapidamente la base del mimoide, formando un tappeto fangoso che s’induriva solo dopo qualche ora (la crosta sopportava il peso d’un uomo pur essendo molto più leggera della pomice). Infine, senza un adeguato equipaggiamento, c’era il rischio di smarrirsi nel labirinto di strutture nodose e spaccate, simili talvolta a colonnati rattrappiti, talvolta a geyser pietrificati. Anche di giorno si rischiava di smarrirsi, perché i raggi non filtravano attraverso la superficie dove si creano in continuazione forme diverse.
Nei giorni fortunati (cioè fortunati per lo studioso che si trovasse presente), l’osservazione di un mimoide produceva un’impressione indimenticabile. In quelle giornate di superproduzione esso cominciava con una straordinaria girandola creativa. Si abbandonava a variazioni sul tema di oggetti esterni, compiacendosi nel complicarli e nel dedicarsi a «prolungamenti di forme»; giocava così per ore, con gran piacere del pittore non figurativo e gran disperazione dello studioso, che invano tentava di capire i processi che si svolgevano sotto i suoi occhi. Certe volte, dall’azione dei mimoidi, uscivano semplificazioni quasi infantili, altre volte facevano sfoggio di creazioni barocche e allora tutto era all’insegna dell’elefantiasi. Specialmente i vecchi mimoidi erano capaci di creare forme buffissime; ma io, a dire il vero, non sono mai riuscito a sorriderne, quando poi le ho viste, troppo colpito dal carattere misterioso di quello spettacolo.
Si poteva capire perché, nei primi anni di studio, ci si fosse gettati sui mimoidi come se costituissero i centri ideali dell’oceano di Solaris, il luogo in cui sarebbe avvenuto l’incontro delle due civiltà. Fin troppo presto, però, si dovette riconoscere che non c’era nessuna possibilità di contatto; tutto cominciava e finiva con l’imitazione delle forme, e non conduceva a nulla.
Obbedendo a un latente criterio di atropo e zoomorfismo, numerosi studiosi non si stancavano di voler riconoscere, nelle creazioni dell’oceano vivente, «organi sensoriali» o anche «membra»; così appunto furono definiti per qualche tempo da certi scienziati (Maartens ed Ekkonai) quelli che Giese aveva battezzato vertebroidi e agilanti. Ma chiamare membra quelle protuberanze dell’oceano vivente proiettate a distanze di tre chilometri è quasi come dire che il terremoto sia la ginnastica della Terra.
Il catalogo delle forme che si ripetono con relativa frequenza comprende circa trecento voci. Queste formazioni nascono dall’oceano così copiosamente che se ne possono riscontrare a decine e talvolta a centinaia nelle ventiquattr’ore.
Secondo Giese, le formazioni più inumane in senso assoluto, intendendosi con ciò l’assenza di somiglianza con qualsiasi cosa che si trovi sulla Terra, erano i simmetriadi. Presto fu accertato con sicurezza che l’oceano non era aggressivo e che nel suo ambiente plasmatico trovava la morte solo chi se la cercava, per propria imprudenza o incoscienza (a parte gli incidenti dovuti a mancato funzionamento degli autorespiratori a ossigeno o dei condizionatori); che con un mezzo aereo si potevano attraversare il fiume di un longo o le colonne fantastiche dei vertebroidi oscillanti fra le nuvole senza correre alcun pericolo, poiché il plasma si scostava alla velocità del suono nell’atmosfera di Solaris, aprendo delle profonde gallerie, persino sotto la superficie dell’oceano (l’energia che esso usa in tali circostanze è immensa: Skrjabin l’ha calcolata, in erg, in dieci alla diciannovesima potenza). Tuttavia l’esplorazione dei simmetriadi fu intrapresa con grande circospezione e intensificando le precauzioni, che spesso si rivelarono vane. I nomi di coloro che per primi esplorarono gli abissi dei simmetriadi sono oggi noti a ogni scolaretto della Terra.
La cosa veramente spaventevole di quei giganti non era il loro aspetto esteriore, che pure è da incubo. Forse l’effetto peggiore è generato dal fatto che in essi nulla è fisso e sicuro e le stesse leggi fisiche cessano di essere valide. Perciò appunto gli esploratori di simmetriadi sono stati sostenitori, più di chiunque altro, della tesi che l’oceano vivente sia dotato di ragione.
I simmetriadi nascono all’improvviso. La loro nascita è simile a un’eruzione. Circa un’ora prima, l’oceano comincia a brillare violentemente, come se la sua superficie si fosse vetrificata su un’estensione di decine di chilometri quadrati.
Però conserva la stessa fluidità e lo stesso ritmo di ondeggiamento. Talvolta, ma non necessariamente, il fenomeno della vetrificazione avviene nei paraggi dell’imbuto lasciato da un agitante. In capo a un’ora tutta quella superficie vetrificata salta per aria sotto forma di una portentosa vescica in cui tutto il firmamento, il sole, le nuvole e l’intero orizzonte si rispecchiano, cangiano, si rifrangono. L’abbagliante gioco di colori, in cui la luce volta a volta ondeggia e si frantuma, è una visione che non ha uguali.
Gli effetti luminosi prodotti dai simmetriadi sono particolarmente violenti durante il giorno del sole azzurro o al tramonto del sole rosso. Si direbbe che il pianeta ne partorisca un altro, il quale in pochi istanti raddoppia il volume. Appena lanciato in alto dagli abissi, il globo abbagliante esplode alla sommità e si spacca a spicchi, ma non è disgregazione.
Questa fase, chiamata poco felicemente «del calice», dura appena qualche secondo. Gli archi protesi al cielo della corolla membranosa si ripiegano all’interno, congiungendosi per le punte in quello spazio invisibile, dove cominciano velocemente a formare un tozzo ceppo dentro il quale avvengono centinaia di fenomeni la volta. Nel centro stesso, esplorato per la prima volta dai settanta membri della équipe di Hamalei, nasce un asse gigantesco di policristallizzazione, che è stato anche chiamato «colonna vertebrale», termine con il quale, personalmente, non concordo. In statu nascendi , l’erezione architettonica vertiginosa di questo pilastro centrale è puntellata da colonne verticali d’una gelatina acquosa che scaturiscono incessantemente da crepacci chilometrici. Durante questo processo il colosso emette un muggito prolungato e continuo, ed è circondato da schiuma nevosa, svolazzante e ribollente. A ciò seguono, dal centro verso la periferia, complicatissime rotazioni di superfici piane sulle quali si deposita a strati il materiale estensibile salito dalle profondità; contemporaneamente i predetti geyser degli abissi si consolidano in mobili colonne tentacolari che si dirigono a fasci in punti della struttura rigorosamente determinati dalla dinamica d’insieme, e che richiamano alla mente branchie embrionali alte fino al cielo, roteanti a una velocità mille volte accresciuta e percorse da filamenti di un sangue roseo e di una secrezione verde scuro, quasi nera. Da quell’istante il simmetriade comincia a manifestare la sua proprietà più straordinaria: quella di poter modellare o sospendere certe leggi fisiche.
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