Valerian sottolineava come si sia prigionieri del nostro tempo, della nostra cultura e della nostra biologia, quanto si sia limitati, per definizione, nell’immaginare creature o civiltà fondamentalmente diverse. E dato che si sarebbero evolute su mondi diversissimi, avrebbero «dovuto» essere diversissime da noi. Era possibile che esseri molto più avanzati di noi avessero tecnologie inimmaginabili — ciò era, di fatto, quasi garantito — e addirittura nuove leggi di fisica. Era segno di una terribile ristrettezza di idee, soleva dire, mentre passavano vicino a una serie di archi simili a quelli dei quadri di De Chirico, immaginare che tutte le importanti leggi della fisica fossero già state scoperte nel momento in cui la nostra generazione cominciava a contemplare il problema. Ci sarebbe stata una fisica del ventunesimo secolo e una fisica del ventiduesimo secolo, e persino una fisica del quarto millennio. Si poteva essere ridicolmente lontani dal presagire come una civiltà tecnicamente diversissima fosse in grado di comunicare.
Ma allora, e lo diceva sempre per rassicurare se stesso, gli extraterrestri avrebbero dovuto sapere come eravamo arretrati. Se fossimo stati un po’ più avanzati, loro avrebbero già saputo da tempo della nostra esistenza. Ecco a che punto eravamo: solo da poco avevamo cominciato a camminare eretti, avevamo scoperto il fuoco mercoledì scorso, appena ieri ci eravamo imbattuti nella dinamica di Newton, nelle equazioni di Maxwell, nei radiotelescopi, nell’idea vaga di superunificazione delle leggi della fisica. Valerian era sicuro che loro non ci avrebbero reso le cose difficili. Avrebbero cercato di facilitarci il compito, perché se volevano comunicare con degli stupidi lo avrebbero tenuto in debito conto. Ecco perché, pensava, egli avrebbe avuto una possibilità, seppur ardua, di successo se mai fosse arrivato un messaggio. La sua mancanza di intelligenza brillante era in realtà il suo punto di forza. Egli conosceva, ne era fiducioso, quel che conoscevano gli stupidi. Come argomento per la sua tesi di dottorato, Ellie scelse, con il consenso della facoltà, lo sviluppo di una miglioria nei sensibili ricevitori usati nei radiotelescopi. Ciò le consentì di mettere in pratica le sue attitudini all’elettronica, la liberò da Drumlin e dal suo eccessivo teorizzare, e le permise di continuare le sue discussioni con Valerian; ma senza intraprendere il passo rischioso per la sua professione di lavorare con lui sull’intelligenza extraterrestre. Era un argomento troppo speculativo per una dissertazione di dottorato. Il suo patrigno aveva preso l’abitudine di considerare i suoi svariati interessi come utopistici e ambiziosi o occasionalmente come banali e piatti. Quando seppe dell’argomento della sua tesi per vie traverse (ormai lei non gli parlava più), lo liquidò come pedestre. Ellie stava lavorando sul maser al rubino, pietra costituita essenzialmente da allumina, che è quasi perfettamente trasparente. La colorazione rossa deriva da una piccola impurità di cromo distribuita nel cristallo di allumina. Quando un forte campo magnetico viene impresso al rubino, gli atomi di cromo aumentano la loro energia o, come i fisici preferiscono dire, vengono portati a uno stato di eccitazione. Le piaceva l’immagine di tutti i piccoli atomi di cromo chiamati a una febbrile attività in ogni amplificatore, impegnati freneticamente in una buona causa pratica, quella di amplificare un debole segnale radio. Più intenso era il campo magnetico e più eccitati diventavano gli atomi di cromo. Così il maser poteva venir sintonizzato in modo da esser particolarmente sensibile a una frequenza radio selezionata. Ellie trovò un sistema per produrre dei rubini con impurità di lantanio in aggiunta agli atomi di cromo, così un maser poteva essere sintonizzato su una più ridotta gamma di frequenze ed era in grado di scoprire un segnale molto più debole di quelli ricevuti dal maser in uso. Il suo rivelatore doveva essere immerso in elio liquido. Quindi Ellie installò il suo nuovo strumento su uno dei radiotelescopi del Cai Tech a Owens Valley e individuò, su frequenze interamente nuove, ciò che gli astronomi chiamano la radiazione cosmica di fondo del corpo nero, i resti nello spettro radio dell’immensa esplosione che diede inizio al nostro universo, il Big Bang.
«Vediamo se ho capito bene,» ripeteva a se stessa. «Ho preso un gas inerte che si trova nell’aria, l’ho fatto liquefare, ho messo alcune impurità in un rubino, attaccato un magnete e scoperto le fiamme della creazione.»
Poi scuoteva il capo meravigliata. Per chiunque fosse all’oscuro delle nozioni di fisica che ne erano alla base, ciò poteva sembrare la più arrogante e pretenziosa negromanzia. Come lo si sarebbe potuto spiegare ai migliori scienziati di mille anni prima, che conoscevano l’aria, i rubini e le magnetite, ma non l’elio liquido, l’emissione stimolata, e le pompe di flusso super-conducenti? Ricordò infatti che essi non avevano neppure la benché minima idea di che cosa fosse lo spettro radio. O nemmeno l’idea di uno spettro — tranne quella vaga che poteva essere suggerita loro dallo spettacolo dell’arcobaleno. Non sapevano che la luce è fatta di onde. Come si poteva sperare di capire la scienza di una civiltà mille anni in anticipo su quella terrestre?
Era necessario produrre rubini su vasta scala, poiché soltanto alcuni avevano i requisiti richiesti. Nessuno aveva le qualità della pietra preziosa, ed erano in massima parte minuscoli. Ma cominciò a mettersene addosso alcuni — i residui più grossi della lavorazione — che si accompagnavano bene al suo colorito scuro. Anche se era tagliata con accuratezza, si poteva riscontrare qualche imperfezione nella pietra incastonata in un anello o in una spilla: per esempio, la strana maniera in cui riceveva la luce in certi angoli da un irregolare riflesso interno, o la presenza di una macchiolina color pesca entro il rosso rubino. Agli amici che non facevano parte dell’ambiente scientifico spiegava che amava i rubini ma che non poteva permetterseli. Era un po’ come lo scienziato che aveva scoperto per primo la fotosintesi clorofilliana e che in seguito portò per sempre sul risvolto della giacca aghi di pino o una fogliolina di prezzemolo. I suoi colleghi, che sentivano crescere il loro rispetto per lei, consideravano questo suo vezzo innocuo. I grandi radiotelescopi del mondo sono costruiti in località remote per la stessa ragione per cui Paul Gauguin si imbarcò per Tahiti: per lavorare bene, devono essere lontani dalla civiltà. Poiché le trasmissioni radio civili e militari sono aumentate, i radiotelescopi hanno dovuto nascondersi, relegati in un’oscura valle a i Puerto Rico, o esiliati in un vasto deserto di cespugli spinosi nel New Mexico o nel Kazakistan. Poiché le interferenze radio continuano a crescere, ha sempre più senso costruire i telescopi completamente fuori della Terra. Gli scienziati che lavorano in questi Osservatori isolati hanno la tendenza a essere ostinati e risoluti. Le mogli li abbandonano, i figli lasciano la casa alla prima occasione, ma gli astronomi non cedono. Raramente pensano a se stessi come a dei sognatori. Il personale scientifico permanente, presente in remoti osservatori, tende a essere pragmatico, sperimentalista, costituito da esperti che conoscono moltissimo riguardo al disegno delle antenne e all’analisi dei dati, e molto meno a proposito delle quasar e delle pulsar. Genericamente parlando, da piccoli non hanno spasimato per le stelle; sono stati troppo occupati a riparare il carburatore dell’auto di casa.
Dopo aver conseguito il suo dottorato, Ellie accettò un impiego come ricercatrice aggiunta all’osservatorio di Arecibo, una grande coppa dal diametro di 305 metri fissata al fondo di una dolina di tipo carsico tra le colline nord occidentali di Puerto Rico. Con il più grande radiotelescopio del pianeta, Ellie era impaziente di usare il suo maser per guardare in direzione dei più svariati oggetti astronomici possibili: pianeti e stelle vicini, il centro della Galassia, pulsar e quasar. Come membro a tempo pieno del personale dell’osservatorio, le sarebbe stata assegnata una notevole quantità di tempo per le osservazioni. L’accesso ai grandi radiotelescopi è ambito al massimo, perché gli importanti progetti di ricerca sono molto più numerosi di quelli che vi possono essere ospitati. Perciò, il tempo riservato al telescopio per il personale residente è una prerogativa senza prezzo. Per molti degli astronomi era la sola ragione che li trattenesse in località così sperdute. Lei sperava anche di esaminare alcune stelle vicine per scoprire possibili segnali di origine intelligente. Con il suo tipo di amplificatore si sarebbe potuto ascoltare la dispersione radio da un pianeta come la Terra anche se si fosse trovato ad alcuni anni luce di distanza. E una società avanzata, che avesse l’intenzione di comunicare con noi, sarebbe stata senza dubbio capace di inviare trasmissioni ben più potenti delle nostre. Se Arecibo, usato come un radar telescopio, era in grado di trasmettere un messaggio di un megawatt di potenza fino a un punto specifico nello spazio, allora una civiltà solo un po’ più avanzata della nostra poteva, a suo parere, essere in grado di trasmettere un segnale della potenza di cento megawatt o più. Se stavano trasmettendo alla Terra intenzionalmente con un telescopio della grandezza di quello di Arecibo ma con un trasmettitore da cento megawatt, Arecibo sarebbe stata nelle condizioni di individuarli virtualmente in qualsiasi punto della Via Lattea. Quando pensò attentamente a ciò, si stupì che nella ricerca di un’intelligenza extraterrestre quel che si sarebbe potuto fare era ben lontano da quello che si era fatto. I mezzi che erano stati dedicati a questo problema erano insignificanti, a suo avviso. Trovava delle difficoltà a scegliere un problema scientifico più importante. L’installazione di Arecibo era nota agli indigeni come «El Radar». La sua funzione era generalmente oscura, ma procurava più di cento posti di lavoro, di cui c’era un gran bisogno sull’isola. Le ragazze del posto venivano tenute ben lontane dagli astronomi, alcuni dei quali potevano esser visti quasi a ogni ora del giorno e della notte, pieni di nervosa energia, percorrere di corsa il sentiero che circondava il riflettore emisferico. Come risultato, le attenzioni rivolte a Ellie al suo arrivo, benché non del tutto sgradite, finirono presto per essere una distrazione dalla sua ricerca.
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