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Carl Sagan: Contact

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Carl Sagan Contact

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Ellie è il direttore del «Progetto Argus,» nel quale i segnali provenienti dallo spazio e captati da radiotelescopi nel Nuovo Messico sono analizzati intensivamente per cercare l’intelligenza extraterrestre (SETI). Dopo un po’, il progetto scopre, effettivamente, la prima comunicazione confermata da esseri extraterrestri, una serie ripetitiva dei numeri primi sino al 261 (una sequenza di numeri primi è un primo messaggio comunemente previsto da intelligenza aliena, poiché la matematica è considerata «un linguaggio universale», ed è congetturato che le procedure che producono i numeri primi successivi sono sufficientemente complicate da richiedere intelligenza per effettuarli). Un’ulteriore analisi del messaggio rivela che due messaggi supplementari sono codificati all’interno di esso in forme differenti di modulazione del segnale. Il secondo messaggio è un abecedario, una specie di manuale d’istruzioni che insegna come leggere ulteriori comunicazioni. Il terzo è il messaggio vero e proprio, i progetti per una macchina che sembra essere un genere di veicolo altamente avanzato, destinata ad ospitare un equipaggio umano. Una sottotrama vede Ellie interagire con una coppia di predicatori cristiani, che dibatte in maniera informale l’esistenza di Dio. Applicando il metodo scientifico, dichiara che «non esiste una prova schiacciante che Dio esista… e non esiste una prova schiacciante che Dio non esista.» Infine, una macchina è costruita con successo ed attivata, e trasporta cinque passeggeri — compresa Ellie — attraverso i buchi neri in un luogo vicino al centro della Via Lattea, dove vengono a contatto con i mittenti del messaggio. Molte delle domande dei viaggiatori trovano risposta. Al ritorno, i passeggeri scoprono che la loro esperienza che soggettivamente per loro era durata molte ore, sulla Terra era durata solo circa venti minuti, e che tutta la loro registrazione video è stata cancellata, presumibilmente da un certo fenomeno nel veicolo. Rimangono pertanto privi di prove del loro racconto.

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Carl Sagan

Contact

Per Alexandra, che sarà maggiorenne all’alba del nuovo millennio. Con l’augurio di poter lasciare alla sua generazione un mondo migliore di quello che abbiamo trovato noi.

traduzione di Fabrizio Ascari

Titolo originale dell’opera: CONTACT

PRIMA PARTE

IL MESSAGGIO

«Il mio cuore trema come una povera foglia.

I pianeti turbinano nei miei sogni.

Le stelle si affollano alla mia finestra.

Volteggio nel sonno.

Il mio letto è un caldo pianeta.»

MARVIN MERCER, PS. 153 Fifth Grade Harlem New York City, N.Y. (1981)

1

NUMERI TRASCENDENTI

«Piccola farfalla, i tuoi giochi d’estate la mia disattenta mano ha cancellato.

Non sono io una farfalla come te?

Né sei tu un uomo come me?

Giacché io danzo e bevo e canto, finché una cieca mano cancellerà il mio volare.»

WILLIAM BLAKE, Canti dell’esperienza, «La farfalla», stanze 1–3 (1795)

Secondo il punto di vista umano, non poteva assolutamente trattarsi di qualcosa di artificiale, visto che aveva le dimensioni dì un mondo. Ma era conformato in maniera così strana e complicata, progettato in maniera così palese per un fine complesso che avrebbe potuto essere soltanto l’espressione di un’idea. Percorrendo un’orbita polare attorno alla grande stella azzurrina, somigliava a un immenso, imperfetto poliedro, incrostato di milioni di antenne paraboliche. Ogni paraboloide era puntato in direzione di un particolare settore del cielo. Veniva tenuta sotto controllo ogni costellazione. Il mondo poliedriforme stava compiendo la sua enigmatica funzione da eoni. Era assai paziente. Poteva permettersi di attendere per l’eternità.

Quando la tirarono fuori, non piangeva affatto. La sua minuscola fronte era corrugata, e poi i suoi occhi si spalancarono. Guardò le luci vivide, le figure vestite di bianco e di verde, la donna sdraiata sul tavolo ginecologico sotto di lei. Venne avvolta da suoni in certo modo familiari. Sul suo faccino era apparsa un’espressione bizzarra per una neonata, di perplessità forse.

Quando aveva due anni, era solita alzare le manine sul capo e dire con grande dolcezza: «Papa, su.» Gli amici di suo padre manifestarono sorpresa. La piccola era educata. «Non si tratta di educazione,» suo padre disse loro. «Aveva l’abitudine di strillare quando voleva essere presa su. Così una volta le ho detto: ‘Ellie, non hai bisogno di urlare; è sufficiente che tu dica: Paparino, su’. I bambini sono svegli. Non è vero, tesoro?» Così adesso se ne stava lassù perfettamente a proprio agio, a un’altezza vertiginosa, appollaiata sulle spalle del padre, aggrappandosi ai suoi capelli che andavano diradandosi. La vita era migliore lassù, molto più sicura del vagare incerto tra una foresta di gambe. Qualcuno laggiù poteva finire col calpestarvi. Ci si poteva perdere. Aumentava la presa.

Lasciando le scimmie, voltarono un angolo e si imbatterono in un animale pezzato dalle zampe sottili, dal lungo collo, con corte corna sulla testa, che torreggiava su di loro. «I loro colli sono così lunghi che non riescono a emettere suoni,» suo padre disse. Lei provò compassione per quella povera creatura condannata al silenzio, ma nello stesso tempo fu contenta che esistesse e si compiacque che simili meraviglie potessero esser presenti sulla terra. «Avanti, Ellie,» la esortava dolcemente la madre. C’era una cadenza nella voce familiare. «Leggi.» La sorella di sua madre non aveva creduto che Ellie, all’età di tre anni, fosse in grado di leggere. La zia era convinta che le favole fossero state imparate a memoria. Adesso stavano percorrendo State Street in una frizzante giornata di marzo e si erano fermati davanti a una vetrina in cui una pietra color rosso borgogna scintillava alla luce del sole. «Gioielliere», Ellie lesse lentamente, scandendo le sillabe.

Con aria colpevole si infilò nello sgabuzzino. La vecchia radio Motorola si trovava sulla mensola proprio come ricordava. Era molto grande e pesante e, mentre se la stringeva al petto, se la fece quasi cader di mano. Sul retro spiccavano le parole: «Pericolo. Non rimuovere». Ma sapeva che se la spina non fosse stata inserita nella presa non ci sarebbe stato alcun rischio. Con la lingua tra le labbra, rimosse le viti e mise allo scoperto l’interno dell’apparecchio. Come aveva sospettato, non c’erano orchestre di lillipuziani e annunciatori in miniatura che vi consumassero quietamente la loro piccola esistenza in attesa del momento in cui la levetta dell’interruttore sarebbe stata abbassata per dare il via alle trasmissioni. Invece, vi si trovavano dei bei tubi di vetro, che richiamavano un po’ alla mente le lampadine. Alcuni somigliavano alle cupole delle chiese moscovite che aveva visto riprodotte in un libro. I rebbi alle loro basi erano perfettamente progettati per i ricettacoli che li accoglievano. Con il pannello posteriore staccato e l’interruttore abbassato, collegò l’apparecchio a una presa che si trovava sulla parete vicina. Se non l’avesse toccato, se non le fosse andata vicino, come avrebbe potuto farle del male?

Dopo qualche momento, le valvole cominciarono a divenire i incandescenti, ma non si udì alcun suono. La radio era «rotta», ed era stata messa da parte alcuni anni prima per essere sostituita da un modello più moderno. Una valvola non si accendeva. Staccò la spina ed esaminò attentamente il tubo che non voleva funzionare togliendolo dal suo ricettacolo. C’era un pezzette di metallo quadrato all’interno, attaccato a fili sottili. L’elettricità i passa lungo i fili, pensò vagamente. Ma prima deve entrare nella valvola. Uno dei rebbi sembrava storto, e lei riuscì a raddrizzarlo dopo aver armeggiato un po’. Reinserendo la valvola e collegando nuovamente l’apparecchio, fu felicissima di vedere che essa cominciava a risplendere, e fu travolta da un’ondata di scariche statiche. Lanciando sguardi inquieti alla porta chiusa, ebbe i un trasalimento e abbassò il volume. Girò il potenziometro contrassegnato dalla parola «frequenza» e per caso captò una voce che riferiva con eccitazione, per quanto riusciva a capire, di una macchina russa che era in cielo e girava attorno alla Terra senza fine. Senza fine, pensava. Girò di nuovo il potenziometro, alla ricerca di altre stazioni. Dopo un po’, temendo di essere scoperta, disattivò l’apparecchio, avvitò alla buona il pannello posteriore, e i con ancor maggior difficoltà sollevò la radio e la ricollocò sulla sua mensola.

Mentre lasciava lo stanzino, con il fiato un po’ corto, si scontrò con la madre e sobbalzò ancora una volta. «E’ tutto a posto, Ellie?»

«Sì, mammina.»

Ostentava un’aria indifferente, ma aveva il cuore in tumulto e le palme sudaticce. Andò a sedersi nell’angolo preferito del piccolo cortile dietro casa e, con le ginocchia sotto il mento, si mise a pensare all’interno della radio. Tutte quelle valvole erano davvero necessarie? Che cosa sarebbe accaduto se fossero state rimosse una alla volta? Suo padre un giorno le aveva chiamate valvole a vuoto. Che cosa accadeva all’interno di una valvola a vuoto? Non c’era veramente aria là dentro? Come arrivavano nella radio la musica delle orchestre e le voci degli annunciatori? Avevano l’abitudine di dire: «Siamo in onda.» Le trasmissioni radio venivano trasportate da un’onda? Che accade dentro l’apparecchio radio quando si cambia stazione? Che cos’era la «frequenza»? Perché si deve inserire la spina in una presa di corrente per farlo funzionare? Si può tracciare una specie di schema che illustri come l’elettricità circoli per la radio? La si può smontare senza farsi male? Se ne possono rimettere insieme i pezzi?

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