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Carl Sagan: Contact

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Carl Sagan Contact

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Ellie è il direttore del «Progetto Argus,» nel quale i segnali provenienti dallo spazio e captati da radiotelescopi nel Nuovo Messico sono analizzati intensivamente per cercare l’intelligenza extraterrestre (SETI). Dopo un po’, il progetto scopre, effettivamente, la prima comunicazione confermata da esseri extraterrestri, una serie ripetitiva dei numeri primi sino al 261 (una sequenza di numeri primi è un primo messaggio comunemente previsto da intelligenza aliena, poiché la matematica è considerata «un linguaggio universale», ed è congetturato che le procedure che producono i numeri primi successivi sono sufficientemente complicate da richiedere intelligenza per effettuarli). Un’ulteriore analisi del messaggio rivela che due messaggi supplementari sono codificati all’interno di esso in forme differenti di modulazione del segnale. Il secondo messaggio è un abecedario, una specie di manuale d’istruzioni che insegna come leggere ulteriori comunicazioni. Il terzo è il messaggio vero e proprio, i progetti per una macchina che sembra essere un genere di veicolo altamente avanzato, destinata ad ospitare un equipaggio umano. Una sottotrama vede Ellie interagire con una coppia di predicatori cristiani, che dibatte in maniera informale l’esistenza di Dio. Applicando il metodo scientifico, dichiara che «non esiste una prova schiacciante che Dio esista… e non esiste una prova schiacciante che Dio non esista.» Infine, una macchina è costruita con successo ed attivata, e trasporta cinque passeggeri — compresa Ellie — attraverso i buchi neri in un luogo vicino al centro della Via Lattea, dove vengono a contatto con i mittenti del messaggio. Molte delle domande dei viaggiatori trovano risposta. Al ritorno, i passeggeri scoprono che la loro esperienza che soggettivamente per loro era durata molte ore, sulla Terra era durata solo circa venti minuti, e che tutta la loro registrazione video è stata cancellata, presumibilmente da un certo fenomeno nel veicolo. Rimangono pertanto privi di prove del loro racconto.

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BERTRAND RUSSEIX, Saggi scettici, I (1928)

Attorno alla stella azzurrina, sul suo piano equatoriale, c’era un esteso anello di detriti orbitanti — rocce e ghiaccio, metalli e materia organica — rossastro alla periferia e bluastro in vicinanza della stella. Il poliedro dalle dimensioni di un mondo veniva inghiottito da un varco tra gli anelli ed emergeva dall’altra parte. Sul piano anulare era stato oscurato in modo intermittente da massi gelati e montagne rotolanti. Ma ora, mentre veniva trasportato lungo la sua traiettoria verso un punto al di sopra del polo opposto della stella, la luce dell’astro faceva scintillare i suoi milioni di appenditi paraboliche. Se si guardava molto attentamente si sarebbe potuto vedere una di esse fare una leggera correzione di puntamento. Non si sarebbe vista invece l’emanazione di onde radio che si sprigionava da essa verso le profondità dello spazio.

Da quando gli uomini erano comparsi sulla Terra, il cielo notturno era stato una compagnia e una ispirazione. Le stelle erano di conforto. Sembravano dimostrare che i cicli erano stati creati per il bene e l’ammaestramento degli esseri umani. Questa patetica presunzione divenne la sapienza convenzionale diffusa in tutto il mondo. Nessuna cultura ne era indenne. Alcuni trovarono nei cicli un’apertura alla sensibilità religiosa. Molti furono colti da un timore reverenziale e si sentirono umiliati dalla gloria e dalla misura del cosmo. Altri vennero stimolati ai più stravaganti voli della fantasia. Nel momento esatto in cui gli uomini scoprirono la grandezza dell’universo e constatarono che le loro più sbrigliate fantasie venivano in realtà totalmente sminuite dalle reali dimensioni anche della sola Via Lattea, essi fecero in modo che i loro discendenti fossero nell’impossibilità totale di vedere le stelle. Per un milione di anni, gli umani erano cresciuti con una personale conoscenza quotidiana della volta celeste. Negli ultimissimi millenni essi avevano cominciato a costruire e a emigrare nelle città. Negli ultimissimi decenni, una buona parte della popolazione umana aveva abbandonato uno stile di vita semplice. Con lo sviluppo della tecnologia e con l’inquinamento urbano, le notti erano diventate senza stelle. Le nuove generazioni arrivavano alla maturità totalmente ignare del cielo che aveva incantato i loro antenati e aveva stimolato l’età moderna della scienza e della tecnologia. Senza neppure rendersene conto, proprio quando l’astronomia entrava in un’età dell’oro, la maggior parte della gente si distaccava dal cielo, un isolazionismo cosmico che i finì soltanto all’alba dell’esplorazione spaziale. Ellie guardava Venere e immaginava che fosse un mondo pressappoco come la Terra: popolato di piante, animali e civiltà, ma differenti da quelli del nostro pianeta. Alla periferia della città, proprio dopo il tramonto, esaminava il cielo notturno e scrutava quel brillante punto luminoso che non tremolava. Confrontandolo con le nubi vicine, esattamente al di sopra di lei, ancora illuminate dal Sole, le sembrava leggermente più giallo. Cercava di immaginare che cosa stesse accadendo lassù. Tutta eccitata, in punta di piedi, fissava il pianeta. Talvolta, riusciva quasi a convincersi di poterlo davvero vedere; un banco di nebbia giallastra si dissolveva a un tratto e una vasta risplendente città si svelava per pochi istanti. Automobili volanti sfrecciavano tra guglie di cristallo. Qualche volta fantasticava di poter guardare in uno di quei veicoli e di intravedere uno di «loro». O immaginava un giovane venusiano intento a guardare in punta di piedi un punto luminoso di un bel blu intenso nel «suo» cielo, bruciante dal desiderio di sapere qualcosa degli abitanti della Terra. Era una prospettiva irresistibile: un pianeta tropicale, soffocante, traboccante di vita intelligente, e proprio nelle immediate vicinanze.

Accettò lo studio mnemonico, pur sapendo che nel migliore dei casi si trattava del vuoto involucro di un’educazione. Fece il minimo indispensabile per riuscire bene nei suoi corsi, e si rivolse ad altre materie. Stabilì di trascorrere i periodi liberi e le ore che le restavano dopo la scuola nella cosiddetta «bottega» una squallida e angusta officina creata quando la scuola dedicava maggiori sforzi all»‘educazione professionale» di quanto non facesse al momento. «Educazione professionale» significava, più che altro lavorare con le mani. C’erano torni, trapani a colonna e altre macchine utensili cui le si proibiva di avvicinarsi, perché, prescindendo dalle sue eventuali capacità, era pur sempre «una ragazza». Con riluttanza le concessero di applicarsi ai suoi progetti nell’area della «bottega» riservata all’elettronica. Costruì delle radio cominciando più o meno da zero, e quindi proseguì con qualcosa di più interessante. Fabbricò una macchina codificatrice, piuttosto rudimentale, ma funzionante. Poteva ricevere ogni messaggio in lingua inglese e trasformarlo con un semplice cifrario in qualcosa che sembrava inintelligibile. Costruire una macchina che facesse l’operazione inversa: trasformare cioè un messaggio cifrato in uno leggibile quando non se ne conosceva la convenzione sostitutiva fu molto più difficile. Si potevano far passare in rassegna alla macchina tutte le possibili sostituzioni (A sta per B, A sta per C, A sta per D…) o si poteva ricordare che alcune lettere in inglese erano usate più spesso di altre. Si poteva avere un’idea della frequenza delle lettere guardando la grandezza dei contenitori per ogni carattere di stampa nella vicina tipografia. «ETAOIN SHR-DLU» dicevano i ragazzi della stamperia, dando abbastanza esattamente l’ordine delle dodici lettere usate più frequentemente in inglese. Decodificando un lungo messaggio, la lettera più comune probabilmente era una E. Scoprì che certe consonanti avevano la tendenza ad andare insieme; le vocali si distribuivano più o meno a caso. La più comune parola di tre lettere della lingua inglese era «thè». Se all’interno di una parola c’era una lettera che stava tra una T e una E, quasi certamente si trattava di una H. In caso negativo, si poteva scommettere su una R o una vocale. Dedusse altre regole e passò lunghe ore calcolando la frequenza di lettere in vari libri di testo prima di scoprire che tali tavole di frequenza erano già state compilate e pubblicate. La sua macchina decodificatrice fu soltanto oggetto di piacere personale. Non la usò per comunicare messaggi segreti agli amici. Non sapeva a chi potesse confidare senza rischi questi suoi interessi elettronici e criptografici; i ragazzi diventavano nervosi o sgarbati e le ragazze la guardavano in modo strano.

I soldati degli Stati Uniti stavano combattendo in un luògo lontano chiamato Vietnam. Ogni mese, a quanto pareva, un numero sempre crescente di giovani veniva prelevato dalle strade o dalle campagne e spedito in Vietnam. Più apprendeva sulle origini della guerra, e più ascoltava i discorsi degli uomini politici nazionali, più si sentiva sconvolta dall’indignazione. Il Presidente e il Congresso stavano mentendo e uccidendo, pensò tra sé, e ciascuno dava un tacito consenso. Il fatto che il suo patrigno abbracciasse le posizioni ufficiali circa gli obblighi derivanti dai trattati, la teoria del mostrare i denti e la sfacciata aggressione comunista, contribuirono solo a rafforzare la sua risoluzione. Cominciò a frequentare incontri e riunioni al vicino college. Le persone che vi incontrava sembravano molto più brillanti, più aperte, più «vive» dei suoi goffi e insignificanti compagni della scuola superiore. John Staughton prima la mise in guardia e poi le proibì di passare il suo tempo con gli studenti del college. Non l’avrebbero rispettata, disse. Avrebbero approfittato di lei. Stava simulando una capacità critica che non aveva e non avrebbe mai avuto. Il suo modo di vestire stava peggiorando. Tenute militari da fatica erano inadatte a una ragazza, erano un travestimento, un’ipocrisia, per qualcuno che proclamava di opporsi all’intervento americano nel Sud Est asiatico.

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