Arkadi Strugatzki - È difficile essere un dio

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La repressione impazza ad Arkanar, nel paesaggio si stagliano le forche.
Il Re ha messo al bando tutti gli intellettuali.
Gli studiosi inviati dal pianeta terra, ormai pacifico ed evoluto,  cercano di confondersi tra gli abitanti di Arkanar, studiano, osservano, trasmettono informazioni.
Intervenire? Creare forzatamente nuovi equilibri, nuove alleanze?
Funzionerebbe? Sarebbe giustificabile eticamente?
Com'è difficile essere un dio!

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«Anton» disse Don Kondor. «Vorrei… Cioè, non… Non voglio essere invadente, e mi creda, non voglio interferire con le sue faccende personali…»

«La ascolto» disse Rumata. Sapeva già dove l’altro voleva andare a parare.

«Noi qui siamo in missione» disse Don Kondor. «Tutto quel che amiamo deve restare sulla Terra, oppure chiuso dentro di noi. In questo modo non ci può essere tolto o usato per ricattarci».

«Vi state riferendo a Kyra?»

«Sì, amico mio. Se metà di quello che mi hanno detto di Don Reba è vero, allora trattenerlo non sarà né facile, né privo di pericoli. Capite?»

«Sì, capisco. Cercherò di escogitare qualcosa».

Distesi l’uno accanto all’altra al buio, si tenevano per mano. In città ormai era tutto tranquillo. Si sentiva solo qualche cavallo che nitriva e scalpitava lontano. Ogni tanto Rumata cadeva in un sonno leggero, ma si svegliava subito. Allora Kyra tratteneva il respiro; nel sonno lui le stringeva forte la mano.

«Sei molto, molto stanco» disse piano lei. «Vai a dormire, ti prego».

«No, no, dimmi tutto, ti ascolto».

«Continui ad addormentarti, caro».

«Ti ascolto lo stesso. Hai ragione, sono stanchissimo, ma desidero ancora di più starti vicino e ascoltarti. Non dormirò, continua a raccontare, ti ascolto».

Lei strofinò il naso contro la sua spalla, lo baciò sulla guancia e ricominciò a raccontare. Poco tempo prima il figlio del vicino di suo padre una sera era andato da lei. «Tuo padre è immobilizzato a letto. Lo hanno cacciato dall’ufficio e lo hanno battuto con le verghe come regalo d’addio. Non mangia quasi più, beve soltanto. È diventato pallido e cianotico, ha la tremarella». Il ragazzo le aveva anche detto che suo fratello era ricomparso, ferito ma felice e ubriaco, con un’uniforme nuova. Aveva dato un po’ di soldi a suo padre, aveva bevuto con lui e poi aveva minacciato di ucciderli tutti. Adesso era tenente, chissà dove, in un distaccamento speciale, aveva giurato fedeltà al Sacro Ordine e stava per essere fatto cavaliere. Suo padre la implorava di non tornare a casa, almeno per il momento. Suo fratello la minacciava continuamente di sconfessarla, perché lei, la strega con i capelli rossi, si era messa con un nobile…

«Certamente non può più tornare a casa» pensò. «E non può assolutamente restare qui. Se dovesse capitarle qualcosa…» Aveva il presentimento che sarebbe successo. A quel pensiero gli corsero i brividi per la schiena.

«Dormi?» chiese Kyra.

Lui sobbalzò e aprì la mano con cui le aveva stretto spasmodicamente il mignolo.

«No» rispose, mezzo addormentato. «Che altro hai fatto?»

«Ho messo in ordine le tue stanze. C’era una confusione terribile. Ho trovato un libro, un’opera di Padre Gur. Parla di un nobile principe che ama una fanciulla bella ma primitiva della regione delle montagne. Lei è completamente selvaggia e lo ritiene un dio, ma lo ama con tutto il cuore. Poi li separano e lei muore di dolore».

«È un bel libro» disse Rumata.

«Ho anche pianto. Ho continuato a pensare che parlasse di noi, di te e di me».

«Sì, parla di persone come noi. E in generale di tutti gli esseri umani che si amano.

Solo che nessuno ci separerà».

«Per lei la Terra sarebbe il luogo più sicuro» pensò Rumata. «Ma come farebbe a vivere senza di me? E come farei io, qui da solo? Potrei chiedere ad Anka di diventarti amica. Ma come farò io a restare qui senza di te? No, andremo sulla Terra, ma insieme! Guiderò io l’astronave, e tu starai seduta accanto a me, e ti spiegherò tutto. Così non avrai paura. Così amerai subito la Terra. Così non avrai mai nostalgia di casa. Questo pianeta non è affatto la tua casa. La tua casa ti ha respinta. E sei nata mille anni prima del tuo tempo. Tesoro mio, così buona, così cara, così generosa e pronta a sacrificarti… persone come te sono nate in tutte le epoche della storia sanguinosa dei nostri pianeti. Anime pure e candide, che non capiscono la crudeltà e non conoscono l’odio. Vittime. Vittime inutili. Ancora più inutili del poeta Gur o di Galileo. Perché le persone come te non lottano. Per lottare bisogna odiare, ed è proprio quello che non sai fare…» Rumata si addormentò di nuovo. In sogno vide Kyra in piedi sul bordo di un tetto, in Russia, con un degravitatore allacciato alla cintura. Anka, con tono allegro e scherzoso, l’incitava sull’orlo di un abisso immenso…

«Rumata» disse Kyra. «Ho paura!»

«Di cosa, cara?»

«Stai sempre zitto, sempre zitto. Ho una sensazione strana…»

Lui la strinse a sé.

«Va bene, cara, allora parlerò, e tu ascoltami bene. Lontano, molto lontano, oltre la grande foresta, c’è un castello dall’aria sinistra e inaccessibile. Là vive il barone Pampa, un uomo allegro, felice e buono, il miglior barone di tutta Arkanar. Ha una moglie, una donna bella e gentile che lo ama quando è sobrio, ma non può sopportarlo quando è ubriaco…»

S’interruppe e ascoltò attentamente. Dalla strada veniva il rumore di molti scarponi, il vociare degli uomini, il nitrito dei cavalli.

«Sembra che sia qui, eh?» disse una voce roca sotto le loro finestre.

«Già».

«Alt!» I tacchi dei molti scarponi risuonarono sui gradini della scala esterna, e poco dopo dei pugni bussarono al portone. Kyra, spaventata, si strinse a Rumata.

«Aspetta, cara» disse lui gettando via le coperte.

«Sono venuti per me» mormorò Kyra. «Lo sapevo che sarebbero venuti».

Rumata si liberò dal suo abbraccio e corse alla finestra.

«Nel nome del Signore!» gridavano da sotto. «Aprite, se dovremo sfondare la porta sarà peggio per voi!»

Rumata scostò appena la tenda e la luce ondeggiante delle torce riempì la stanza.

Davanti alla casa si muoveva un gruppo abbastanza consistente di cavalieri incappucciati, gente sinistra vestita di nero. Rumata guardò rapidamente di sotto, poi esaminò l’intelaiatura della finestra. Era fissata solidamente al muro. Da basso stavano cercando di sfondare la porta principale. Il giovane frugò nel buio in cerca della spada e sfondò i vetri con l’elsa. Sulla strada cadde una pioggia di cocci tintinnanti.

«Ehi, voi!» gridò. «Che cosa volete? Siete stanchi di vivere?»

I colpi cessarono.

«Combinano sempre guai» dissero delle voci. «Il padrone è in casa…»

«E che ci importa?»

«Non lo sai? Con la spada in mano è imbattibile…»

«Avevano detto che stanotte sarebbe stato via e non sarebbe tornato prima dell’alba».

«Paura?»

«No, no, non abbiamo paura. È solo che non abbiamo ordini riguardo a lui. Non abbiamo l’ordine di ucciderlo…»

«Lo legheremo, lo picchieremo e poi lo incateneremo mani e piedi! Ehi, chi sta spingendo con le lance, laggiù?»

«Se solo non ci spaccasse la testa…»

«No, non aver paura. Dicono che ha la strana abitudine di non uccidere nessuno».

«Vi sgozzerò come cani» minacciò Rumata con una voce terribile.

Kyra si strinse dietro a lui. Il cuore le batteva all’impazzata, Rumata lo sentiva. Di sotto si sentivano urlare i comandi: «Buttate giù la porta, fratelli! In nome del Signore!»

Rumata si voltò e guardò Kyra negli occhi. Lei lo guardava come poco prima, con la paura e la speranza negli occhi. Nelle sue pupille asciutte si riflettevano le torce.

«Andiamo, piccola» le disse teneramente. «Non avrai paura di quelle canaglie? Vai a vestirti. Non ha senso restare qui». Indossò velocemente la maglia di metalloplast.

«Li caccerò via e poi ce ne andremo. Andremo al castello del barone Pampa».

Lei si avvicinò alla finestra per guardare. Sul viso le passavano punti di luce rossastra. Da sotto venne il rumore del legno che si rompeva, del metallo che si schiodava.

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