Arkadi Strugatzki - È difficile essere un dio

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È difficile essere un dio: краткое содержание, описание и аннотация

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La repressione impazza ad Arkanar, nel paesaggio si stagliano le forche.
Il Re ha messo al bando tutti gli intellettuali.
Gli studiosi inviati dal pianeta terra, ormai pacifico ed evoluto,  cercano di confondersi tra gli abitanti di Arkanar, studiano, osservano, trasmettono informazioni.
Intervenire? Creare forzatamente nuovi equilibri, nuove alleanze?
Funzionerebbe? Sarebbe giustificabile eticamente?
Com'è difficile essere un dio!

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«Eccellente!» esclamò il barone, gettandogli alcune monete d’oro con un gesto ampio. «Portaci il meglio. Ma non farci servire da qualche puttanella agghindata, vogliamo una donna rispettabile!»

L’oste in persona accompagnò i signori nella «sala privata». C’erano già alcuni avventori. In un angolo era seduto un gruppo di ufficiali Grigi, due tenenti in alta uniforme e due capitani con la giacca corta e le spalline del ministero della Sicurezza Interna. Due aristocratici si erano appisolati vicino alla finestra davanti a una bottiglia di vino: avevano il viso smunto e triste, e in generale un’aria depressa. Al tavolo accanto sedeva un gruppetto di nobili decaduti con le giacche stropicciate e i mantelli rammendati. Sorbivano le loro birre ed esploravano spesso la stanza con lo sguardo avido.

Il barone si sedette goffamente a un tavolo libero, guardò irritato gli ufficiali Grigi e brontolò: «Non si riesce mai a star lontani da quelle canaglie. Neppure qui». Una vecchietta grassa stava portando il primo piatto. Il barone borbottò qualcosa, staccò il pugnale dalla cintura e si accinse a mangiare. Divorò in silenzio grossi pezzi di cacciagione arrosto, montagne di molluschi marinati, pile di granchi, enormi quantità di insalate alla maionese, lavò il tutto con una cascata di vino, birra e birra casalinga, e poi con una miscela di tutti e tre. I nobili decaduti cercarono ripetutamente di unirsi al suo tavolo, ma il barone li mandò a quel paese con un gesto maestoso e un grugnito ostile.

Improvvisamente smise di mangiare, fissò Rumata con gli occhi sporgenti e ringhiò come un animale feroce: «È da un po’ che non vengo ad Arkanar, mio nobile amico. E giuro sul mio onore che qui c’è qualcosa che non mi piace!»

«E sarebbe?» chiese Rumata interessato, masticando un’ala di pollo.

I visi dei nobili decaduti esprimevano attenzione e meraviglia.

«Dimmi, caro amico» tuonò il barone pulendosi le mani unte nel mantello «da quando in qua è diventato normale nella nostra bella capitale, sede di Sua Altezza il Re, che i discendenti delle famiglie più antiche del regno non possano fare un passo senza imbattersi nei bottegai, nei miserabili macellai?»

I nobili si scambiarono un rapido sguardo e si ritirarono nel loro angolo. Rumata fece l’occhiolino in direzione dell’altro angolo, dov’erano seduti gli ufficiali Grigi.

Questi avevano posato il bicchiere e guardavano verso il tavolo del barone.

«Vi dirò io, signori, dove sta il problema» continuò il barone. «Il problema è che siete una massa di vigliacchi. Li tollerate perché li temete. Voi, laggiù, siete spaventati a morte!» Urlava con quanto fiato aveva in gola e fissava il nobile decaduto vicino a lui. Ma il pover’uomo, sorridendo debolmente, abbandonò il suo tavolo come un cane con la coda tra le gambe. «Vigliacchi!» gridò il barone. Era così eccitato che i suoi baffoni ora avevano la punta all’insù.

Ma dai nobili decaduti non ci si poteva aspettare molto. Erano restii a venire coinvolti in una rissa, e desideravano solo mangiare e bere. Il barone appoggiò un piede sulla panca, si avvolse il baffo destro attorno al dito, fissò gli occhi verso l’angolo dove sedevano gli ufficiali Grigi e dichiarò: «Ma io, signori, non ho paura neppure del diavolo! Io schiaccio gli insetti Grigi sotto le scarpe, quando li incontro!»

«Che cosa sta bofonchiando quel barile di birra laggiù?» chiese a voce alta un capitano Grigio con la faccia da cavallo.

Sulle labbra del barone comparve un sorriso soddisfatto. Si alzò dal tavolo impetuosamente e saltò sulla panca. Rumata aggrottò le sopracciglia e cominciò ad addentare la seconda ala di pollo.

«Ehilà, bastardi Grigi dell’inferno!» gridò il barone come se gli ufficiali fossero lontanissimi. «Sia chiaro che io, Barone Pampa, Don Bau, ho dato una bella lezione a dei tipi come voi tre giorni fa. Sai, amico mio» si voltò e parlò dall’alto a Rumata sempre seduto a tavola «ho fatto qualche bevutina con Padre Kabani l’altra sera, al castello. Improvvisamente il mio stalliere corre a dirmi che un’orda di Sturmovik Grigi sta per distruggere la Locanda del Ferro d’Oro. La mia locanda! Sulle mie terre!

Ho dato l’ordine di andare. Siamo arrivati in un attimo. Vi giuro sui miei speroni che abbiamo trovato l’orda intera, una ventina di uomini! Avevano preso tre dei miei, si erano ubriacati come maiali (e quei bastardi non possono bere, naturalmente) e stavano giusto cominciando a sfasciare tutto quanto. Ne ho afferrato uno per la gamba, e così ho iniziato la caccia. Li ho inseguiti fino alle Spade Pesanti. Scorreva il sangue, non ci crederai amico mio, ci arrivava alle ginocchia, e non so quante asce hanno lasciato dietro di sé!»

Qui il racconto del barone si interruppe. Il capitano con la faccia da cavallo aveva colpito con il pugnale la sua maglia di metallo.

«Finalmente!» disse il barone, e sguainò la spada enorme.

Saltò giù dalla panca con insospettabile agilità; la sua spada roteava abilmente nell’aria e urtò una trave che sosteneva il soffitto basso. Il soffitto non cedette, cadde solo un po’ d’intonaco.

Nella stanza si erano alzati tutti. I nobili decaduti si tenevano vicini al muro. I giovani aristocratici salirono sui tavoli per vedere meglio. Gli ufficiali Grigi si disposero in semicerchio e sguainarono le spade, avanzando lentamente verso il barone. Solo Rumata restò seduto, cercando di pensare da che parte sarebbe stato più sicuro alzarsi in piedi senza danno. Perché ora la grande spada del barone fendeva l’aria minacciosamente, descrivendo cerchi sinistri sopra la sua testa. Era una scena prodigiosa. Il barone ricordava a Rumata un elicottero con le pale in funzione.

Il barone era circondato su tre lati dagli ufficiali Grigi, che però furono costretti a fermarsi non appena giunsero a tiro della spada. Uno di loro ebbe la sfortuna di volgere la schiena a Rumata, che si sporse attraverso il tavolo, afferrò l’uomo indifeso per il collo e lo sbatté sul tavolo tra i piatti sporchi con un colpo ben assestato dietro l’orecchio. L’ufficiale chiuse gli occhi e si irrigidì. Il barone urlò: «Tagliagli la gola, nobile Rumata! Io finirò gli altri!»

«Farà un massacro» pensò il giovane, a disagio.

«Attenzione!» gridò agli ufficiali Grigi. «Perché dobbiamo rovinarci la serata a vicenda? Non avete la minima possibilità contro di noi. Gettate le armi e andatevene!»

«No di certo!» obiettò il barone, visibilmente contrariato. «Voglio battermi! Voglio che si battano! In guardia, disgraziati!»

Così dicendo avanzò verso i Grigi, continuando a roteare la spada sempre più velocemente. Gli ufficiali indietreggiarono impallidendo. Chiaramente era la prima volta che vedevano un elicottero. Rumata balzò sul tavolo. «Fermo, amico mio!»

gridò. «Non c’è ragione di litigare con questa gente. Se non ti va di vederli qui, di’ loro di andarsene».

«Non ce ne andremo senza le nostre armi» borbottò uno dei tenenti. «Ci punirebbero. Siamo di pattuglia, ora».

«Andate al diavolo e prendetevi le vostre armi!» disse Rumata. «Rinfoderate le spade, mani sulla testa. Uscite uno alla volta, senza scherzi! O vi faccio a pezzi!»

«Come facciamo a uscire?» chiese il capitano con la faccia da cavallo. Contrasse il labbro superiore in una smorfia irritata. «Quest’uomo ingombra il passaggio!»

«E continuerò a farlo!» insistette il barone, ostinato.

I giovani aristocratici sorrisero sprezzanti.

«Va bene, allora» disse Rumata. «Io lo terrò, e voi uscite uno dopo l’altro, ma di corsa. Non sarò in grado di controllarlo per molto. Ehi, lascia libero il passaggio!

Barone!» disse, afferrando Pampa per la vita. «Mi sembra che tu abbia dimenticato una cosa importante. Questa famosa spada era usata dai tuoi avi solo in battaglia, perché sta scritto: ‘Non sguainare la spada nelle taverne!’«

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