Arkadi Strugatzki - È difficile essere un dio

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La repressione impazza ad Arkanar, nel paesaggio si stagliano le forche.
Il Re ha messo al bando tutti gli intellettuali.
Gli studiosi inviati dal pianeta terra, ormai pacifico ed evoluto,  cercano di confondersi tra gli abitanti di Arkanar, studiano, osservano, trasmettono informazioni.
Intervenire? Creare forzatamente nuovi equilibri, nuove alleanze?
Funzionerebbe? Sarebbe giustificabile eticamente?
Com'è difficile essere un dio!

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L’espressione di Pampa fu attraversata dall’ombra di un dubbio, mentre continuava a roteare la spada.

«Ma non ho con me un’altra spada» disse confuso.

«A maggior ragione…» rispose enfaticamente Rumata.

«Lo pensi davvero?» Il barone era ancora esitante.

«Conosci meglio di me le regole!»

«È vero. Hai ragione». Si guardò le mani. «Non ci crederai, Don Rumata, ma potrei continuare così per altre tre o quattro ore senza fermarmi. E non mi sentirei neppure stanco. Peccato che lei non possa vedermi adesso!»

«Glielo racconterò, sta’ sicuro».

Il barone abbassò la spada sospirando. Gli ufficiali Grigi uscirono dalla stanza. Il barone li seguì con lo sguardo.

«Non so, non so» disse indeciso. «Pensi davvero che abbia fatto bene a non farli a pezzi?»

«Hai fatto benissimo» lo rassicurò Rumata.

«Be’, visto che non abbiamo avuto la fortuna di batterci, facciamoci portare qualcosa di decente da mangiare e da bere» disse allora rinfoderando la spada.

Prese per le gambe il tenente Grigio, ancora svenuto, e lo tirò giù dal tavolo, gridando: «Ehilà, oste! Portaci un po’ di vino e un boccone!»

I giovani aristocratici si avvicinarono al tavolo per congratularsi umilmente con loro.

«Non è niente, è stato facile!» disse con compiacenza il barone. «Sei femminucce, vigliacchi come tutti i bottegai. Ne ho fatti fuori due dozzine, al Ferro d’Oro, li ho cacciati via… Per fortuna» disse a Rumata «non avevo con me la spada da guerra!

Avrei potuto usarla, distratto come sono. Anche se il Ferro d’Oro non è proprio una taverna, solo un’osteria d’angolo…»

«Qualcuno dice anche» disse Rumata «che sta scritto: ‘Non sguainare la spada nelle osterie d’angolo’…»

La moglie dell’oste portò della carne e del vino. Il barone si rimboccò le maniche e si mise all’opera.

«A proposito» disse Rumata «chi erano i tre prigionieri che hai liberato quella volta al Ferro d’Oro?»

Il barone smise di masticare e guardò Rumata. «Ma caro amico, forse non mi sono spiegato. Non ho liberato nessuno. Certo, erano tutti prigionieri, erano stati arrestati, ma quello era affare del governo. Perché avrei dovuto liberarli? Era solo un vecchio signore, un gran codardo, un vecchio topo di biblioteca con il suo servo…» Si strinse nelle spalle.

«Sì, certo» disse Rumata.

Improvvisamente il barone divenne rosso e roteò gli occhi in modo spaventoso.

«Cosa? Ancora?» ringhiò.

Rumata si voltò. Don Ripat era sulla porta. Il barone balzò in piedi, rovesciando le panche e i piatti. Don Ripat lanciò uno sguardo significativo a Rumata e lasciò di nuovo la stanza.

«Chiedo scusa, barone» disse Rumata alzandosi in piedi. «Il servizio mi chiama».

«Diamine» mormorò deluso il barone. «Mi spiace per te. Io in questo modo non servirei mai nessuno!»

Don Ripat lo aspettava fuori.

«Novità?» chiese Rumata.

«Due ore fa» annunciò Don Ripat in tono ufficiale «ho messo agli arresti Donna Okana, obbedendo agli ordini del nostro ministro della Sicurezza Interna. L’ho fatta portare nella Torre della Gioia».

«Mmh» si limitò a dire Rumata.

«È morta due ore fa. Non è sopravvissuta alla tortura».

«Mmh».

«Ufficialmente era accusata di spionaggio. Ma…» Don Ripat sembrava imbarazzato e guardava per terra. «Io penso… Credo che…»

«Capisco» disse Rumata.

Don Ripat lo guardò con espressione colpevole.

«Ero impotente…» cominciò a dire.

«Questo non vi riguarda» disse bruscamente Rumata.

Gli occhi di Don Ripat si fecero plumbei. Rumata gli fece un cenno impercettibile e tornò al suo tavolo. Il barone aveva appena terminato un piatto di molluschi.

«Vino estoriano! A fiumi!» Rumata non riusciva quasi a parlare. Cercava di inghiottire il nodo che aveva in gola. «E adesso divertiamoci! All’inferno tutto quanto!»

Quando Rumata tornò in sé si ritrovò in mezzo a un terreno deserto. Albeggiava; in lontananza i galli cantavano rauchi. Stormi di uccelli neri gracchiavano sopra di lui, volteggiando intorno a qualcosa di sgradevole. Tutto puzzava di marcio. La nebbia che aveva in testa si dissolveva velocemente, e presto riacquistò la solita lucidità.

Sulla lingua gli sembrava di sentire un piacevole gusto di menta. Le dita della mano destra gli facevano male. Rumata sollevò il pugno destro, contratto. La pelle intorno al polso era arrossata. Aprì il polso e vide che stava ancora stringendo una fiala vuota di Casparamid, il potente farmaco contro le intossicazioni etiliche in dotazione come misura precauzionale a tutti gli emissari inviati sui pianeti extraterrestri dai vari istituti.

Apparentemente aveva dato retta a un istinto cieco e si era versato in bocca l’intero contenuto della fiala prima di sprofondare nell’incoscienza su quel terreno deserto.

L’ambiente gli sembrava familiare. Lo scheletro carbonizzato della torre dell’osservatorio si ergeva nel cielo, e a sinistra delle rovine le torri di guardia del palazzo reale, sottili come minareti, trafiggevano la pallida luce del giorno. Rumata respirò profondamente l’aria fredda e umida e si avviò verso casa.

Il barone Pampa aveva passato una notte magnifica, proprio come piaceva a lui.

Accompagnato da un gruppetto di nobili squattrinati, facilmente inclini a perdere la loro dignità, era partito per una colossale spedizione attraverso le taverne più malfamate di Arkanar, dove aveva inghiottito quantità incredibili di alcol, compiuto imprese memorabili di ghiottoneria e si era fatto coinvolgere in otto risse. Almeno questo era il numero di volte in cui Rumata ricordava chiaramente di essere intervenuto per separare i contendenti ed evitare che accadesse il peggio. Il resto era come immerso in una specie di foschia. Di tanto in tanto la foschia si diradava, e ne emergevano volti bestiali e minacciosi, con il pugnale tra i denti, poi il viso stupefatto e amareggiato dell’ultimo dei nobili squattrinati che Don Pampa aveva cercato di vendere come schiavo nella zona del porto, poi un irukano dal naso bitorzoluto e gli occhi cattivi che, fremente di rabbia, chiedeva ai nobili signori che gli restituissero il cavallo.

All’inizio Don Rumata era rimasto in disparte. Non aveva bevuto meno del barone: vino irukano, estoriano, soaniano e arkanariano, ma tutte le volte che cambiava tipo di vino ingoiava di nascosto una fiala di Casparamid. Aveva mantenuto la lucidità e aveva notato che le pattuglie Grigie stazionavano in numero maggiore del solito agli incroci e presso i ponti; poi avevano incontrato un posto di blocco di barbari a cavallo, da qualche parte sulla strada di Soan, che avrebbero probabilmente sparato al barone se Don Rumata non avesse saputo parlare il loro dialetto. Ricordava chiaramente il pensiero che gli aveva attraversato la mente di fronte alle file immobili di strani soldati vestiti di lunghe tuniche con il cappuccio, che si erano fermati di fronte alla Scuola Patriottica. «Non è la guardia dei monaci? Cosa c’entra qui la chiesa?» si era chiesto. «Da quando in qua la chiesa si occupa di affari secolari?» Si era ubriacato molto gradualmente, ma a un certo punto era stato sopraffatto dall’intossicazione. In un momento fuggevole di lucidità aveva notato un tavolo completamente distrutto in una stanza sconosciuta, la sua mano che brandiva una spada e le figure pietose dei nobili decaduti che lo circondavano.

Aveva quasi pensato che fosse ora di tornare a casa, ma a quel punto era ormai troppo tardi. Era stato sommerso da un’ondata di rabbia folle e da una gioia irresistibile e disgustosa al pensiero di essere capace, per una volta, di dimenticare ogni traccia di umanità. Nondimeno, era rimasto un terrestre e un emissario dell’Istituto, un discendente dell’uomo, padrone del ferro e del fuoco, che non si risparmia e non si ferma di fronte a una meta più grande da raggiungere. Non poteva essere solo Rumata di Estoria, discendente di venti generazioni di guerrieri famosi per le rapine e la passione per il vino. Ma non era più neppure un comunardo, un compagno. Non aveva sentito più obblighi verso il grande Esperimento. Gli interessavano solo gli obblighi verso se stesso. E non era più attanagliato dai dubbi.

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