All’improvviso, una sciarpa di tulle ondeggiò nella sua memoria; il tessuto svolazzò davanti ai suoi occhi, disturbando il girotondo, smorzando il verde dell’erba, intercettando la luce con i suoi movimenti bizzarri.
La stoffa si avvicinò, al punto che poteva sentirne la trama sul viso, poi si arrotolò intorno alle sue labbra. Anna aprì la bocca in una risata, ma le maglie le sprofondarono in gola. Respirò, e il velo le si incollò violentemente al palato. Non era più tulle: era garza.
Garza chirurgica, che la asfissiava.
Urlò nella notte; il suo grido non produsse alcun suono. Aprì gli occhi: si era addormentata. La sua bocca era schiacciata contro il cuscino.
Quando sarebbe finito tutto ciò? Si tirò su e sentì ancora il sudore sulla pelle. Era quello il velo vischioso che aveva provocato la sensazione di soffocamento.
Sì alzò dal letto e si diresse verso il bagno adiacente alla stanza. A tastoni trovò la maniglia e richiuse la porta prima di accendere la luce. Premette l’interruttore poi si girò verso lo specchio sopra il lavabo.
La sua faccia era coperta di sangue.
Strisce rosse sulle fronte; croste nascoste sotto gli occhi, vicino alle narici, intorno alle labbra. All’inizio credette di essersi ferita. Poi si avvicinò allo specchio: era solo sangue dal naso. Cercando di asciugarsi nel buio si era impiastricciata col suo stesso sangue. La sua maglietta ne era intrisa.
Aprì il rubinetto dell’acqua fredda e tese la mano, inondando il lavandino con un turbine rosastro. Fu posseduta da un’idea: quel sangue rappresentava una verità che tentava di strapparsi dalle sue carni. Un segreto che la sua coscienza rifiutava di riconoscere, di formalizzare, e che fuggiva dal suo corpo in forma di fluidi organici.
Ficcò la faccia sotto quel getto di freschezza, mescolando singhiozzi e trecce traslucide. Nello scrosciare dell’acqua non cessava di mormorare:
«Ma cos’è che ho? Cosa?»
Una piccola spada d’oro.
Lui la vedeva così nei suoi ricordi. In realtà, lo sapeva, era un semplice tagliacarte di rame, con l’impugnatura cesellata alla maniera spagnola. Paul, otto anni, l’aveva appena rubato nel garage di suo padre e si era rifugiato nella sua camera. Si ricordava perfettamente l’atmosfera di quel momento. Le imposte chiuse. Il calore schiacciante. La quiete della siesta.
Un pomeriggio d’estate come tanti altri.
Se non fosse che quelle poche ore avevano sconvolto la sua vita per sempre.
«Cosa nascondi nella mano?»
Paul chiuse il pugno; sua madre era sulla soglia della stanza.
«Fammi vedere cosa nascondi.»
La voce era calma, solamente tinta di curiosità. Paul strinse le dita. Lei avanzò nella penombra, attraversando i raggi di sole che filtravano dalle persiane; poi si sedette sul bordo del letto e gli aprì dolcemente la mano:
«Perché hai preso il tagliacarte?»
Lui non le vedeva il viso, immerso nell’ombra:
«Per difenderti.»
«Difendermi da chi?»
Silenzio.
«Difendermi da papà?»
Lei si sporse verso di lui. Il suo volto apparve in una linea di luce; la faccia tumefatta, chiazzata di ematomi; uno dei due occhi, con il bianco pieno di sangue, lo fissava come un oblò. Ripeté:
«Difendermi da papà?»
Muovendo il capo, lui annuì. Ci fu un attimo di sospensione, una immobilità, poi lei lo abbracciò, come un’onda quando si frange. Paul la respinse; non voleva lacrime, nessun gesto di pietà. La sola cosa che contava era lo scontro che ci sarebbe stato. Il giuramento che aveva fatto a sé stesso, la sera prima, quando suo padre, completamente ubriaco, aveva picchiato sua madre fino a lasciarla svenuta sul pavimento della cucina. Quando il mostro si era girato e l’aveva visto lì, tremante, nel vano della porta, lo aveva avvertito: «Tornerò. Tornerò e vi ucciderò tutti e due!»
Allora Paul si era armato e ora attendeva il suo ritorno con la spada in mano.
Ma l’uomo non era tornato. Né l’indomani né il giorno successivo. Per un caso di cui solo il destino conosceva il segreto, Jean-Pierre Nerteaux si era fatto ammazzare la notte stessa in cui aveva proferito quelle minacce. Il suo corpo era stato scoperto due giorni più tardi, dentro al proprio taxi, vicino ai depositi petroliferi del porto di Gennevilliers.
All’annuncio dell’omicidio, Françoise, la moglie, aveva reagito in maniera strana. Invece di andare subito a identificare il cadavere, aveva voluto recarsi sul luogo della scoperta per verificare che la Peugeot 504 fosse intatta e che non ci fossero problemi con la compagnia dei taxi.
Paul si ricordava anche dei più piccoli dettagli. Il viaggio in autobus fino a Gennevilliers; il borbottare di sua madre frastornata; la sua stessa apprensione di fronte a un avvenimento che non comprendeva. Tuttavia, appena scorta la zona dei depositi, era stato colto da meraviglia. Corone d’acciaio giganti si alzavano nei terreni brulli. In mezzo alle rovine di cemento spuntavano erbacce e arbusti. Aste d’acciaio arrugginivano come cactus di metallo.
Un vero paesaggio western, simile ai deserti che riempivano i fumetti della sua biblioteca.
Sotto un cielo in fusione, la madre e il bambino avevano attraversato le zone di stoccaggio. Al fondo di quelle terre abbandonate, avevano scoperto la Peugeot, mezza sprofondata nelle dune grigie. Paul aveva captato ogni segno che fosse all’altezza dei suoi otto anni. Le uniformi dei poliziotti, le manette scintillanti al sole; le spiegazioni a bassa voce; i meccanici, le mani nere nella luce bianca, che si agitavano intorno alla macchina…
Gli era occorso un po’ per comprendere che suo padre era stato pugnalato al volante. Ma solo un secondo per scorgere, attraverso la porta posteriore socchiusa, le lacerazioni nello schienale del sedile.
L’assassino si era accanito sulla sua vittima attraverso il sedile.
Quella visione aveva colpito il bambino rivelandogli la segreta coerenza dell’evento. Due giorni prima aveva desiderato la morte di suo padre, si era armato, poi aveva confessato il suo piano criminale alla madre. Tutto ciò aveva assunto il valore di una maledizione: una forza misteriosa aveva realizzato il suo desiderio. Non era lui che aveva impugnato il coltello, ma era proprio lui che aveva ordinato, mentalmente, l’esecuzione.
A partire da quel momento, non si ricordava più di niente. Né della sepoltura, né delle lacrime di sua madre, né delle difficoltà finanziarie che avevano segnato la loro quotidianità. Paul era concentrato unicamente su quella verità: lui era il solo colpevole.
Il grande mandante del massacro.
Molto più tardi, nel 1987, si era iscritto alla facoltà di diritto della Sorbona. A forza di lavoretti, aveva accantonato abbastanza denaro per affittare una camera a Parigi e per tenersi a debita distanza da sua madre, che non la smetteva più di bere. Addetta alle pulizie in un grande magazzino, lei esultava all’idea che suo figlio diventasse avvocato. Ma Paul aveva altri progetti.
Con la laurea in tasca, nel 1990 Paul era entrato nella scuola per ispettori di Cannes-Ecluse. Due anni più tardi ne era uscito, primo in graduatoria, e aveva potuto scegliere uno dei posti più ambiti dalle matricole della polizia: l’Ufficio centrale per la repressione del traffico illecito di stupefacenti. Il tempio dei cacciatori di droga.
La sua strada sembrava tracciata. Quattro anni in un ufficio centrale o in una brigata d’élite, poi ci sarebbe stato il concorso interno per commissarii. Prima dei quarant’anni, Paul Nerteaux avrebbe ottenuto un posto di prestigio al Ministero degli interni, in place Beauvau, sotto gli stucchi dorati della Grande Maison. Un successo folgorante per un bambino cresciuto, come si dice, in un «ambiente difficile».
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