Loro restarono piantate là, sullo scalino, come due statue, nella luce del sole.
«Allora?» chiese infine Clothilde. «Chi è? Continui a non saperlo?»
L’auto sparì nel traffico. A mo’ di risposta Anna mormorò:
«Hai una sigaretta?»
Clothilde tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un pacchetto stropicciato di Marlboro Light. Anna inalò la sua prima boccata, ritrovando la calma del mattino, nel cortile dell’ospedale. Con un tono scettico Clothilde dichiarò:
«C’è qualcosa che non quadra nella tua storia.»
Anna si girò, il gomito in aria, la sigaretta alzata come un’arma:
«Cosa?»
«Ammettiamo che tu abbia conosciuto quel tipo e che lui sia cambiato. Okay.»
«E allora?»
Clothilde fece schioccare le labbra producendo un suono di lattina stappata:
«Perché lui non ti riconosce?»
Anna guardò le macchine sfilare sotto il cielo smorto, con le chiazze di luce che zebravano le carrozzerie. Al di là vide la facciata in legno di Mariage Frères, le vetrate fredde del ristorante La Marée e il placido guardamacchine che non smetteva di osservarla.
Le sue parole si confusero nel fumo azzurrognolo:
«Pazza. Sto diventando pazza.»
Una volta la settimana Laurent cenava con i «camerati» di sempre.
Era un rituale infallibile, una sorta di cerimoniale. Quegli uomini non erano amici d’infanzia, né membri di un particolare circolo. Non condividevano alcuna passione comune. Semplicemente appartenevano alla stessa corporazione: erano sbirri. Si erano conosciuti a livelli diversi e adesso erano giunti, ciascuno nel proprio campo, in cima alla piramide.
Anna, come le altre mogli, era rigorosamente esclusa dai loro incontri; e quando la cena si svolgeva nel loro appartamento dell’avenue Hoche, lei era pregata di andare al cinema.
Tuttavia, tre settimane prima, Laurent le aveva proposto di partecipare alla riunione successiva. Dapprima lei aveva rifiutato, tanto più che suo marito aveva aggiunto, col suo tono da infermiere: «Vedrai che questo ti distrarrà.» Poi aveva cambiato idea; in fondo era curiosa di incontrare i colleghi di Laurent, di osservare altri profili di funzionali. Dopo tutto, non ne conosceva che un solo modello: il suo.
Non aveva rimpianto la decisione. Nel corso di quella serata aveva scoperto uomini duri ma appassionanti, che parlavano tra loro senza tabù né riserve. In quel gruppo si era sentita come una regina, sola donna a bordo, davanti alla quale quei poliziotti rivaleggiavano nel raccontare aneddoti, scontri a fuoco e segreti.
Dopo quella prima sera, aveva partecipato a ogni cena e aveva imparato a conoscerli meglio. A cogliere i loro tic, i loro punti di forza — e anche le loro ossessioni. Quelle cene offrivano una vera fotografia del mondo della polizia. Un mondo in bianco e nero, un universo di violenza e di certezze, al tempo stesso caricaturale e affascinante.
I partecipanti, salvo qualche eccezione, erano sempre gli stessi. Nella maggior parte dei casi, era Alain Lacroux che guidava la conversazione. Alto, magro, verticale, sulla cinquantina abbondante, sottolineava la fine di ogni frase dando un colpo con la forchetta o scuotendo il capo. Persino il suo accento meridionale contribuiva a quest’arte della finzione, del cesello. In lui, tutto cantava, ondeggiava, sorrideva — nessuno avrebbe immaginato le sue reali responsabilità: dirigeva la sottosezione degli Affari criminali di Parigi.
Pierre Carcilli era il suo opposto. Piccolo, grassoccio, oscuro, borbottava in continuazione, con una voce lenta che aveva virtù quasi ipnotiche. Era quella voce che aveva sopito le diffidenze e aveva strappato confessioni ai criminali più duri. Carcilli era corso. Occupava un posto importante alla DST, la Direzione della sorveglianza del territorio.
Jean-François Gaudemer non era né verticale né orizzontale: era una roccia compatta, massiccio, testardo. All’ombra di una fronte alta e ariosa, i suoi occhi erano d’un nero dal quale sembrava potessero nascere tempeste. Quando parlava lui, Anna tendeva sempre le orecchie. I suoi intenti erano cinici, le sue storie sconvolgenti, ma di fronte a lui si provava una sorta di riconoscenza; la sensazione ambigua che un velo si levasse scoprendo la trama nascosta del mondo. Era il capo dell’OCTRIS, l’Ufficio centrale per la repressione del traffico illecito di stupefacenti. L’uomo della droga in Francia.
Ma il preferito di Anna era Philippe Charlier. Un colosso di un metro e novanta, strizzato nei suoi vestiti firmati. Soprannominato dai colleghi «il Gigante Verde», aveva una faccia da pugile, larga come una pietra, bordata da baffi e da capelli sale e pepe. Parlava troppo forte, rideva come un motore a scoppio e, prendendolo per la spalla, costringeva il suo interlocutore ad ascoltare le sue barzellette.
Per capirlo serviva un vero repertorio di metafore salaci. Diceva «un osso nelle mutande» al posto di «erezione», parlava dei suoi capelli crespi chiamandoli «peli dei coglioni» e quando raccontava le sue vacanze a Bangkok sintetizzava: «Portarsi la moglie in Thailandia è come portarsi la birra da casa per andare a Monaco.»
Anna lo trovava volgare, inquietante, ma irresistibile. Emanava una potenza bestiale, qualcosa di intensamente «sbirro». Era difficile immaginarlo in un posto diverso da un ufficio mal illuminato a strappare confessioni ai sospetti. O sul campo, a dirigere uomini armati di fucili d’assalto.
Laurent le aveva rivelato che, nel corso della sua carriera, Charlier aveva ammazzato a sangue freddo almeno cinque uomini. Il suo terreno di manovra era il terrorismo. DST, DGSE, DNAT: indipendentemente dalla sigla sotto la quale si era battuto, egli aveva sempre condotto la stessa guerra. Venticinque anni di operazioni clandestine, di atti di forza. Quando Anna chiedeva maggiori dettagli, Laurent respingeva la domanda con un gesto: «Sarebbe soltanto la punta dell’iceberg.»
Quella sera, la cena si svolgeva proprio da lui, in avenue de Breteuil. Un appartamento haussmaniano, dai parquet lucidati, pieno di oggetti coloniali. Per curiosità, Anna aveva sbirciato nelle stanze accessibili: nessuna traccia d’una presenza femminile; Charlier era uno scapolo convinto.
Erano le ventitré. I commensali erano allungati in una posizione rilassata da fine pasto, nell’alone di fumo dei sigari.
In quel marzo 2002, qualche settimana prima delle elezioni presidenziali, ognuno avanzava previsioni e ipotesi, immaginando i cambiamenti che sarebbero intervenuti in seno al Ministero degli interni a seconda del candidato eletto. Sembravano tutti pronti per una battaglia più grande, senza essere certi di parteciparvi.
Philippe Charlier, seduto vicino ad Anna, le disse sottovoce:
«Quanto rompono con le loro storie da sbirri! La sai quella dello svizzero?»
Anna sorrise:
«Me l’hai raccontata sabato scorso.»
«E quella delle tre ragazze che si confessano?»
«No.»
«Ci sono tre ragazze che vanno a confessarsi. La prima dice al prete: “Padre, ho peccato, ho visto il sesso del mio fidanzato.” “Vai all’acquasantiera e lavati gli occhi con l’acqua santa”, le dice il prete. Entra nel confessionale la seconda e dice: “Padre, ho peccato, ho toccato il sesso del mio fidanzato.” “Vai all’acquasantiera e lavati le mani con l’acqua santa.” Mentre le prime due sono lì che fanno le sacre abluzioni, la terza inizia a confessarsi, ma dopo un attimo la vedono arrivare di corsa vicino all’acquasantiera: “Largo, largo ragazze, devo fare i gargarismi!”»
Ci impiegò un attimo a capirla, poi scoppiò a ridere. Le barzellette del poliziotto non superavano mai l’altezza delle mutande, ma avevano il merito di essere inedite. Rideva ancora quando il viso di Charlier si confuse. Di colpo i suoi tratti persero definizione; la sua faccia ondeggiò letteralmente.
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