Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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Anna distolse gli occhi e li posò sugli altri invitati. Anche i loro tratti tremavano, si storcevano, formavano un’onda di espressioni contraddittorie, mostruose, mescolando le carni, le risate, le urla…

Fu scossa da uno spasmo. Si mise a respirare a bocca aperta.

«Qualcosa non va?» si preoccupò Charlier.

«Ho… Ho caldo. Vado a rinfrescarmi.»

«Vuoi che ti indichi?…»

Lei posò la mano sulla sua spalla e si alzò:

«No, grazie, faccio da sola. Ora va meglio.»

Camminò rasente il muro, appoggiandosi sullo spigolo del camino, urtando un carrello e provocando un’onda di tintinnii…

Passata la soglia, lanciò uno sguardo dietro di sé: il mare di maschere era ancora là. Una sarabanda di grida, di rughe in fusione, di carni tormentate che spuntavano dalla massa per inseguirla. Superò la porta trattenendo un urlo.

L’ingresso non era illuminato. I cappotti appesi disegnavano forme inquietanti, le porte socchiuse rivelavano raggi d’oscurità. Anna si fermò davanti a uno specchio incorniciato d’oro antico. Contemplò la sua immagine: un pallore da carta velina, una fosforescenza da spettro. Si afferrò le spalle che tremavano sotto la maglia di lana nera.

All’improvviso, nello specchio apparve un uomo dietro di lei.

Non lo conosce; non era alla cena. Si gira per vederlo in faccia. Chi è? Da dove è arrivato? Il suo aspetto è minaccioso; qualcosa di distorto, di sfigurato si posa sul suo viso. Le sue mani brillano nell’ombra come due armi bianche…

Anna indietreggia. Sprofonda in mezzo ai cappotti appesi. L’uomo avanza. Lei sente gli altri che parlano nella stanza vicina; vorrebbe gridare, ma la sua gola è come tappezzata di cotone in fiamme. Il viso è ormai a qualche centimetro da lei. Un’immagine nello specchio le attraversa gli occhi, un segnale d’oro offusca le sue pupille…

«Vuoi che ce ne andiamo?»

Anna soffocò un gemito: era la voce di Laurent. Immediatamente, il viso ritrovò il suo aspetto familiare. Sentì due mani che la sostenevano e capì che era svenuta.

«Santo cielo», chiese Laurent, «cos’hai?»

«Il mio cappotto. Dammi il mio cappotto», ordinò lei liberandosi dalle sue braccia.

Il malessere non svaniva. Non riusciva a riconoscere del tutto suo marito. Era ancora convinta di una cosa: sì, quei tratti erano trasformati, era un viso modificato, che celava un segreto, una zona opaca…

Laurent le porse il suo montgomery. Tremava. Certo, aveva paura per lei, ma anche per sé. Temeva che i suoi compagni afferrassero la situazione: uno dei più alti responsabili del Ministero degli interni aveva una moglie matta.

Lei si infilò nel cappotto e assaporò il contatto con la fodera. Avrebbe voluto fuggire, sparire per sempre…

Nel salone risuonavano scoppi di risa.

«Vado a salutarli anche per te.»

Sentì dei toni di rimprovero, poi nuove risate. Anna lanciò un’ultima occhiata allo specchio. Un giorno, ben presto, di fronte a quell’immagine si sarebbe domandata: «Chi è?»

Laurent riapparve. Lei mormorò:

«Portami via. Voglio rientrare. Voglio dormire.»

6.

Ma il male la inseguiva anche nel sonno.

Da quando erano cominciate le crisi, Anna faceva sempre lo stesso sogno. Immagini in bianco e nero che sfilavano a un ritmo incerto, come in un film muto.

Ogni volta era la stessa scena: dei contadini dall’aria affamata attendevano, di notte, sul marciapiede di una stazione; arrivava un treno merci, in una nuvola di vapore. Si apriva una paratia. Appariva un uomo, pettinato a caschetto, e si sporgeva per prendere una bandiera che qualcuno gli porgeva; lo stendardo recava un segno strano: quattro lune disposte in forma di rosa dei venti.

L’uomo si raddrizzava, alzando le sopracciglia nerissime. Arringava la folla, faceva sventolare la banderuola nell’aria, ma le sue parole non si sentivano. Al loro posto si levava una sorta di trama sonora: un mormorio atroce, composto di sospiri e di singhiozzi di bambini.

Il mormorio di Anna si mescolava allora a quel coro di lamenti strazianti. Rivolgendosi a quelle giovani voci, chiedeva: «Dove siete?», «Perché piangete?»

Come risposta, il vento spazzava il marciapiede della stazione. Le quattro lune, sulla bandiera, si mettevano a splendere come fosforo. La scena piombava nell’incubo più assoluto. Il mantello dell’uomo si dischiudeva, rivelando una cassa toracica nuda, aperta, svuotata; poi una burrasca sbriciolava il suo volto. La pelle si sgretolava, come cenere, a partire dalle orecchie, scoprendo muscoli neri e sporgenti…

Anna si svegliò di soprassalto.

Gli occhi aperti nell’oscurità, non riconobbe niente. Né la camera. Né il letto. Né il corpo che dormiva al suo fianco. Le ci volle qualche secondo per familiarizzarsi con quelle forme estranee. Appoggiò la schiena al muro e s’asciugò il viso, coperto di sudore.

Perché quel sogno tornava ancora? Che rapporto aveva con la sua malattia? Era certa che si trattasse di un’altra faccia del male; un’eco misteriosa, un contrappunto inspiegabile alla sua degenerazione mentale. Nel buio chiamò:

«Laurent?»

La schiena girata, suo marito non si mosse. Anna lo prese per la spalla:

«Laurent, dormi?»

«Non più, adesso.»

«Posso… posso farti una domanda?»

Lui si sollevò a metà e sprofondò la testa nel cuscino:

«Ti ascolto.»

Anna abbassò la voce, i singhiozzi del sogno le risuonavano ancora in mente:

«Perché…» esitò, «perché non abbiamo figli?»

Per un attimo non si mosse niente. Poi Laurent scostò le lenzuola e si sedette sul bordo del letto, voltandole di nuovo la schiena. Di colpo il silenzio sembrava carico di tensione, di ostilità.

Si sfregò la faccia e poi disse:

«Dobbiamo tornare da Ackermann.»

«Cosa?»

«Gli telefonerò. Prenderemo un appuntamento all’ospedale.»

«Perché dici così?»

Da sopra la spalla buttò là:

«Hai mentito. Ci hai raccontato che non soffrivi di disturbi della memoria. Che c’era solo quel problema con i volti.»

Anna capì di aver fatto una gaffe. Di Laurent vedeva soltanto la nuca, i suoi vaghi riccioli, la sua schiena stretta, ma indovinava il suo abbattimento e anche la sua collera.

«Cosa ho detto?» arrischiò lei.

Laurent ruotò di qualche grado:

«Tu non hai mai voluto figli. Era la condizione che hai posto per sposarmi.» Alzò la voce, levando la mano sinistra. «La sera stessa del nostro matrimonio mi hai fatto giurare che non ti avrei mai chiesto quello. Sei fuori di testa, Anna. Bisogna reagire. Bisogna fare quegli esami. Capire cosa sta succedendo. Dobbiamo fermare tutto questo! Merda!»

Anna si raggomitolò all’altro capo del letto:

«Dammi ancora qualche giorno. Ci deve essere un’altra soluzione.»

«Quale soluzione?»

«Non so. Qualche giorno. Per favore.»

Lui si allungò di nuovo e ficcò la testa sotto le lenzuola:

«Chiamerò Ackermann mercoledì prossimo.»

Inutile ringraziarlo: Anna non sapeva neppure perché gli aveva chiesto un rinvio. A cosa serviva negare l’evidenza? Il male si stava impossessando, neurone dopo neurone, di ogni regione del suo cervello.

Scivolò sotto le coperte, ma a una buona distanza da Laurent, e rifletté su quell’enigma dei figli. Perché aveva chiesto un tale giuramento? Quali erano le sue motivazioni all’epoca? Non aveva nessuna risposta. La sua stessa personalità le stava diventando estranea.

Risalì fino al suo matrimonio. Era stato otto anni prima. Allora lei aveva ventitré anni. Di che cosa si ricordava veramente?

Un castello a Saint-Paul-de-Vence, delle palme, delle distese d’erba ingiallite dal sole, delle risate di bambini. Chiuse gli occhi, cercando di ritrovare le sensazioni. Un girotondo si allungava come un’ombra cinese sulla superficie di un prato. Insieme vedeva delle trecce di fiori, delle mani bianche…

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