Lui alzò le spalle e si concentrò sul paesaggio. La vettura filava già sull’autostrada, sul fondo della valle della Bièvre. Foreste scure, brune e rosse; saliscendi a perdita d’occhio.
Le nuvole erano di ritorno; in lontananza, una luce bianca faticava ad aprirsi il cammino tra i vapori bassi del cielo. Poi, all’improvviso, un sole velato prese il sopravvento e infiammò il paesaggio.
Viaggiarono per più di un quarto d’ora prima che Laurent riprendesse:
«Devi avere fiducia in Eric.»
«Nessuno toccherà il mio cervello.»
«Eric sa quello che fa. È uno dei migliori neurologi d’Europa…»
«E un amico d’infanzia. Me lo hai ripetuto mille volte.»
«È una fortuna essere seguiti da lui. Tu…»
«Non sarò la sua cavia.»
«La sua cavia?» disse scandendo le sillabe. «La-sua-cavia? Ma di cosa parli?»
«Ackermann mi osserva. La mia malattia lo interessa, tutto qui. Quel tipo è un ricercatore, non un dottore.»
Laurent sospirò:
«Stai delirando. Veramente, tu sei…»
«Fuori di testa?» Anna fece calare come una cortina di ferro la sua risata senza gioia. «Non è certo uno scoop.»
Questo scoppio di lugubre allegria aumentò la collera del marito:
«E allora cosa vuoi fare? Vuoi aspettare a braccia conserte che il male guadagni terreno?»
«Nessuno ha detto che la malattia avanzerà.»
Lui si agitò sul sedile.
«È vero. Scusami. Dico delle fesserie.»
Il silenzio riempì nuovamente l’abitacolo.
Il paesaggio assomigliava sempre di più a un fuoco di erbe umide. Rossastro, cupo, attraversato da brume grigie. I boschi si stendevano contro l’orizzonte, prima indistinti, poi, man mano che la macchina si avvicinava, prendevano la forma di artigli insanguinati, di cesellature fini, di arabeschi neri…
Di tanto in tanto appariva un paese con il suo classico campanile di campagna. Poi un serbatoio dell’acquedotto, bianco, immacolato, vibrò nella luce fremente. Si stentava a credere di essere solo a qualche chilometro da Parigi.
«Vedremo.»
«Ti accompagnerò. Dedicherò il tempo che ci vorrà. Noi siamo con te, capisci?»
Il «noi» contrariò Anna: Laurent associava ancora Ackermann alla sua benevolenza. Ormai si sentiva più una paziente che una moglie.
All’improvviso, in cima alla collina di Meudon, Parigi apparve in un’esplosione di luce. Tutta la città, dispiegando i suoi tetti infiniti e bianchi, si mise a brillare come un lago gelato irto di cristalli, di brina, di zolle di neve, mentre gli edifici del quartiere della Défense sembravano alti iceberg. Tutta la città bruciava al contatto con il sole, sfavillante di luce.
Quell’abbagliamento la gettò in uno stupore muto; superarono il ponte di Sèvres, poi attraversarono Boulogne-Billancourt, senza una parola.
Quando furono nei pressi della Porte de Saint-Cloud, Laurent domandò:
«Ti lascio a casa?»
«No, al lavoro.»
«Mi avevi detto che avresti preso una giornata di ferie.»
La voce aveva assunto una sfumatura di rimprovero.
«Pensavo che sarei stata più stanca», mentì Anna. «E non voglio lasciare da sola Clothilde. Il sabato, il negozio è preso d’assalto.»
«Clothilde, il negozio…», ripeté lui con tono sarcastico.
«E allora?»
«Veramente questo lavoro… Non è alla tua altezza.»
«Alla tua, vorrai dire.»
Laurent non rispose. Forse non aveva neppure sentito l’ultima frase. Tendeva il collo per vedere cosa succedeva davanti a loro; sulla tangenziale il traffico era bloccato.
Con aria impaziente, ordinò all’autista di aprirsi un varco. Nicolas comprese il messaggio. Prese dal portaoggetti un lampeggiatore magnetico e lo piazzò sul tetto della macchina. Con un urlo di sirena, la Peugeot 607 si liberò del traffico e riprese velocità.
Nicolas non alzò più il piede dall’acceleratore. Le dita sprofondate nello schienale del sedile davanti, Laurent seguiva ogni colpo di volante, ogni scarto della macchina. Sembrava un bambino concentrato davanti a un videogioco. Anna rimaneva sempre stupita nel vedere che, malgrado i suoi studi e il suo incarico di direttore del Centro di studi e bilanci del Ministero degli interni, Laurent non aveva mai dimenticato l’eccitazione del lavoro sul campo, il fascino della strada. «Povero sbirro», pensò lei.
Porte Maillot, lasciarono la tangenziale e presero l’avenue des Ternes; l’autista spense finalmente la sirena. Anna entrava nel suo universo quotidiano. La rue du Faubourg-Saint-Honoré e i riflessi delle sue vetrine; la sala Pleyel e le sue ampie vetrate, al primo piano, dove si agitavano ballerine di fila, le arcate in mogano della boutique Mariage Frères, dove lei comprava i suoi tè rari.
Prima di aprire la portiera, Anna, riprendendo la conversazione là dove la sirena l’aveva interrotta, disse:
«Non è un semplice lavoro, lo sai. È il mio modo di restare in contatto con il mondo esterno. Per non rimanere sempre sepolta nel nostro appartamento.»
Uscì dall’auto e si sporse ancora verso di lui:
«È così, oppure è il manicomio, capisci.»
Si scambiarono un ultimo sguardo e, in un batter d’occhio, furono di nuovo alleati. Mai lei avrebbe usato la parola «amore» per indicare la loro relazione. Era una complicità, una condivisione che andava al di là del desiderio, della passione, delle fluttuazioni imposte dai giorni e dall’umore. Delle acque calme, sotterranee, che si mescolavano in profondità. Allora si comprendevano, senza bisogno di parole…
Di colpo lei ritrovò la speranza. Laurent l’avrebbe aiutata, l’avrebbe amata, l’avrebbe sostenuta. L’ombra sarebbe diventata ambra. Lui chiese:
«Passo a prenderti questa sera?»
Lei fece sì con la testa mentre lui le mandava un bacio, poi si diresse verso la Maison du Chocolat.
Il campanello della porta tintinnò come se lei fosse stata una normale cliente. Bastò quella nota familiare per riconfortarla. Si era presentata per quel lavoro il mese precedente, dopo aver visto l’annuncio nella vetrina: allora lei cercava solo di distrarsi dalle sue ossessioni, ma qui aveva trovato qualcosa di meglio.
Un rifugio.
Un cerchio che confinava le sue angosce.
Le due del pomeriggio; il negozio era deserto. Clothilde doveva aver approfittato del momento di calma per recarsi nel magazzino.
Anna attraversò la sala. Il negozio assomigliava a una scatola di cioccolatini oscillante tra il bruno e l’oro. Al centro, il banco principale troneggiava come un’orchestra, con i suoi classici fondenti e al latte: cremini, baci, tris… A sinistra, il blocco di marmo della cassa ospitava gli «extra», i piccoli capricci che ci si concedeva all’ultimo istante, al momento di pagare. A destra le gelatine di frutta, le caramelle, i torroni: tante variazioni sul medesimo tema. Sopra, sugli scaffali, c’erano ancora altre dolcezze che brillavano, avviluppate nei sacchetti di carta trasparente i cui riflessi cangianti accendevano la golosità.
Anna notò che Clothilde aveva preparato la vetrina di Pasqua. Cestini intrecciati con dentro uova e galline di ogni misura; case di cioccolato dal tetto in caramello sorvegliate da maialini in pasta di mandorle; pulcini che andavano in altalena, in un cielo di narcisi di carta.
«Sei qui? Fantastico. Sono appena arrivate le scorte.»
Clothilde spuntò dal montacarichi, in fondo alla sala, azionato da una ruota e da un argano all’antica, che permetteva di tirar su le casse dal parcheggio di square du Roule. Saltò giù dalla piattaforma, scavalcò le scatole impilate e si piazzò davanti ad Anna, radiosa e affannata.
Nel giro di qualche settimana, Clothilde era diventata uno dei suoi punti di riferimento. Ventotto anni, nasino rosa, ciocche biondo-castano che scendevano a tendina davanti agli occhi. Aveva due figli, un marito che lavorava in banca, una casa col mutuo e un destino tracciato con riga e squadra. Viveva dentro una certezza di felicità che sconcertava Anna. Stare vicino a quella giovane donna era al tempo stesso rassicurante e irritante. Lei non poteva credere neppure un secondo a quel quadretto senza crepe e senza sorprese. In quel credo c’era una sorta di ostinazione, di menzogna accettata. E comunque, un tale miraggio era per lei inaccessibile: a trentun anni, Anna non aveva figli e aveva sempre vissuto nel disagio, nell’incertezza e nella paura del futuro.
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