«Ma io riconosco la maggior parte delle facce», tentò di argomentare lei. «Durante il test, ho identificato tutti i ritratti…»
«Tutti tranne quello di tuo marito. E questa è una pista seria.»
Ackermann unì gli indici di entrambe le mani sulle sue labbra, in un segno di ostentata riflessione. Quando non era gelido diventava enfatico:
«Noi possediamo due tipi di memoria. C’è quello che impariamo a scuola e quello che apprendiamo nella nostra vita personale. Queste due memorie non fanno lo stesso cammino nel cervello. Io penso che tu soffra di un problema di connessione tra l’analisi istantanea dei volti e la loro comparazione con i tuoi ricordi personali. C’è una lesione che sbarra la strada a questo meccanismo. Tu puoi riconoscere Einstein, ma non Laurent, che appartiene ai tuoi archivi privati.»
«E… è curabile?»
«Certo. Noi sposteremo questa funzione in una parte sana della tua testa. È uno dei vantaggi del cervello: la sua plasticità. Per questo dovrai sottoporti a una rieducazione: una sorta di allenamento mentale, degli esercizi regolari sostenuti da farmaci adatti.»
Il tono grave del neurologo era in contrasto con la buona notizia.
«Dov’è il problema?» chiese Anna.
«Nell’origine della lesione. Qui, devo confessarlo, mi fermo. Non abbiamo alcun segno di tumore, nessuna anomalia neurologica. Non hai subito nessun trauma cranico, né incidenti vascolari che abbiano privato di irrigazione questa parte del cervello. Occorre fare delle nuove analisi, più profonde, al fine di perfezionare la diagnosi.»
«Quali analisi?»
Il medico si sedette dietro la sua scrivania. Il suo sguardo imperturbabile si fermò su di lei:
«Una biopsia. Un infinitesimo prelievo di tessuto corticale.»
Anna ci impiegò qualche secondo a comprendere, poi una vampata di terrore le montò al viso. Si volse verso Laurent, ma lo vide lanciare uno sguardo d’intesa ad Ackermann. La paura lasciò il posto alla rabbia: erano complici. Il suo destino era segnato; senza dubbio già dalla mattina.
Le parole tremarono sulle sue labbra:
«Non se ne parla neanche.»
Il neurologo sorrise per la prima volta. Un sorriso confortante, nelle intenzioni, ma che appariva completamente artificiale:
«Non devi avere nessuna apprensione. Praticheremo una biopsia stereotassica. Si tratta di una semplice sonda che…»
«Nessuno toccherà il mio cervello.»
Anna si alzò e si avvolse nello scialle; ali da corvo foderate d’oro. Laurent prese la parola:
«Non devi prenderla così. Eric mi ha assicurato che…»
«Tu sei dalla sua parte?»
«Noi siamo tutti dalla tua parte», assicurò Ackermann.
Lei arretrò, per meglio inquadrare i due ipocriti.
«Nessuno toccherà il mio cervello», ripeté con voce decisa. «Preferisco perdere completamente la memoria o crepare della mia malattia. Non rimetterò mai più piede qui.»
All’improvviso, presa dal panico, urlò:
«Mai più, avete capito?»
Corse lungo il corridoio deserto, scese precipitosamente le scale, poi si fermò di colpo sulla soglia dell’edificio. Sentì il vento freddo richiamare il sangue sotto la sua pelle. Il cortile era inondato di sole. Ad Anna parve che quel chiarore estivo, senza calore e senza foglie sugli alberi, fosse stato congelato per meglio conservarlo.
Dall’altra parte del cortile, Nicolas, l’autista, la scorse e uscì dalla berlina per aprirle la portiera. Anna gli fece segno di no con la testa. Con la mano tremante, cercò nella borsa una sigaretta, l’accese, poi assaporò il gusto acre che le riempiva la gola.
L’istituto Henri-Becquerel raggruppava diversi edifici di quattro piani, che inquadravano un giardino punteggiato di alberi e di cespugli fitti. Sulle facciate smorte, grigie o rosa, erano affissi avvertimenti minacciosi: VIETATO ENTRARE SENZA AUTORIZZAZIONE; STRETTAMENTE RISERVATO AL PERSONALE MEDICO; ATTENZIONE PERICOLO.
Anche i più piccoli dettagli le sembravano ostili in quel fottuto ospedale.
Aspirò ancora una boccata di sigaretta, a pieni polmoni; il gusto del tabacco bruciato la calmò, come se in quel minuscolo braciere avesse gettato tutta la sua collera. Chiuse le palpebre, sprofondando nello stordimento del profumo.
Dei passi dietro di lei.
Laurent la oltrepassò senza degnarla di uno sguardo, attraversò il cortile poi aprì la portiera posteriore dell’auto. Si mise ad aspettarla, battendo sull’asfalto il tacco del mocassino lucidato, il viso contratto. Anna gettò la sua Marlboro e lo raggiunse. Si lasciò scivolare sul sedile in pelle. Laurent fece il giro della vettura e si sedette al suo fianco. Finita questa manovra silenziosa, l’autista partì e scese la rampa del parcheggio con una lentezza da vascello spaziale.
Davanti alla sbarra bianca e rossa dell’ingresso c’erano diversi soldati che montavano la guardia.
«Vado a recuperare il mio passaporto», disse Laurent. Anna si guardò le mani: tremavano ancora. Trasse dalla borsa un astuccio per la cipria e si osservò nello specchio ovale. Sembrava quasi che si attendesse di scoprire dei segni sulla sua pelle, come se lo sconvolgimento interiore avesse avuto la violenza di un pugno. E invece no, aveva lo stesso viso liscio e regolare di sempre, lo stesso pallore di neve, inquadrato da capelli neri tagliati alla Cleopatra; gli stessi occhi un po’ a mandorla, blu scuro, le cui palpebre si abbassavano lentamente, con la pigrizia di un gatto.
Scorse Laurent che tornava, piegato nel vento, con il bavero del cappotto alzato. E a un tratto sentì il calore di un’onda. Il desiderio. Lo guardò ancora: il suoi riccioli biondi, gli occhi sporgenti, quella preoccupazione che gli corrugava la fronte… Con mano incerta si premette contro il corpo le falde del cappotto. Un gesto da bambino timoroso, cauto, che mal si conciliava con la sua potenza di alto funzionario. Come quando ordinava un cocktail e descriveva pizzico per pizzico le dosi che desiderava. O come quando, le spalle alzate, metteva le mani giunte in mezzo alle gambe per manifestare il freddo o l’imbarazzo. Era quella fragilità che l’aveva sedotta; quelle piccole incrinature, quelle debolezze che contrastavano con il suo reale potere. Ma chi amava ancora in lui? Di cosa si ricordava?
Laurent si sedette di nuovo al suo fianco. La barra si alzò. Al passaggio, egli rivolse un saluto ostentato agli uomini armati. Questo gesto rispettoso irritò nuovamente Anna. Il suo desiderio svanì e domandò con durezza:
«Perché tutti questi sbirri?»
«Militari», rettificò Laurent. «Sono dei militari.»
La macchina si immise nel traffico. Piazza Generale Leclerc, a Orsay, era minuscola e ordinata con cura. Una chiesa, un municipio, un negozio di fiori: ogni elemento si stagliava nettamente.
«Perché quei militari?» insistette lei.
Laurent rispose con un tono distratto:
«È per via dell’Ossigeno-15.»
«Di cosa?»
Lui non la guardava, le sue dita tamburellavano sul vetro.
«L’Ossigeno-15. Il tracciante che ti hanno iniettato nel sangue per l’esame. È un prodotto radioattivo.»
«Fantastico.»
Laurent si girò verso di lei; la sua espressione si sforzava di essere rassicurante, ma le sue pupille tradivano l’irritazione:
«Non è pericoloso.»
«Ed è perché non è pericoloso che ci sono tutte queste guardie?»
«Non fare la scema. In Francia tutte le operazioni che implicano l’uso di materiale nucleare sono supervisionate dal CEA, il Commissariato per l’Energia Atomica. E chi dice CEA dice militari, tutto qui. Eric è obbligato a lavorare con l’esercito.»
Anna si lasciò scappare un sogghigno. Laurent si irrigidì:
«Cosa c’è?»
«Niente. Ma dovevi proprio trovare l’unico ospedale di Francia dove ci sono più uniformi che camici bianchi.»
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