«Questo non fa di me un medico legale.»
«Io penso che la vittima sia un’operaia turca.»
«Perché turca?»
«In primo luogo per il quartiere. E poi per i denti. Ha delle otturazioni in oro che si fanno solo in Medio Oriente. Vuole sapere i nomi delle leghe?»
Schiffer piazzò nuovamente il piatto davanti a sé e riprese il suo pasto.
«Perché operaia?» chiese dopo aver masticato a lungo.
«Le dita», replicò Paul. «Le estremità sono piene di cicatrici. È tipico di certi lavori di cucito. Ho verificato.»
«La sua segnalazione corrisponde a qualche avviso di scomparsa?»
Il pensionato faceva finta di non capire.
«Nessun avviso di scomparsa», rispose Paul con pazienza. «Nessuna richiesta di ricerca. È una clandestina, Schiffer. È una che in Francia non ha stato civile. Una donna che nessuno verrà mai a cercare. La vittima ideale.»
Il Cifra terminò la sua bistecca lentamente. Poi abbandonò le posate e tornò alle foto. Questa volta, inforcò un paio di occhiali. Guardò ogni immagine per diversi secondi, osservando con attenzione le ferite.
Suo malgrado, Paul abbassò gli occhi verso le fotografie. Vide, al contrario, il foro del naso, appiattito e nero; i tagli che fessuravano il viso; il labbro leporino, violaceo, orrendo.
Schiffer posò il mazzo delle foto e prese uno yogurt. Ne sollevò con precauzione il coperchio prima di immergervi il cucchiaio.
Paul sentiva esaurirsi a gran velocità le sue riserve di calma.
«Ho cominciato il giro», riprese. «I laboratori. I foyer. I bar. Non ho trovato niente. Non è scomparso nessuno. Ed è normale: là nessuno esiste. Sono clandestini. Come identificare una vittima in una comunità invisibile?»
Silenzio di Schiffer; cucchiaiata di yogurt. Paul riprese:
«Nessun turco ha visto niente. O forse non hanno voluto dirmi niente. Per la verità nessuno ha potuto dirmi nulla: per la semplice ragione che nessuno parla francese.»
Il Cifra continuava il suo lavoro con il cucchiaio. Alla fine, si degnò di aggiungere:
«Allora, ti hanno parlato di me.»
«Tutti mi hanno parlato di lei. Beauvanier, Monestier, i luogotenenti. A sentir loro, solo lei può far avanzare questa cazzo di inchiesta.»
Nuovo silenzio. Schiffer si asciugò le labbra con il tovagliolo, poi prese di nuovo il vasetto di plastica.
«Tutto questo è lontano. Io sono in pensione e non ho più la testa per queste cose. Adesso mi dedico alle mie nuove responsabilità», disse indicando i biglietti delle scommesse.
Paul afferrò il bordo della tavola e si sporse:
«L’assassino le ha fatto esplodere i piedi. Le radiografie hanno rivelato più di settanta frammenti ossei conficcati nella carne. Le ha tagliuzzato i seni al punto che le si possono contare le costole attraverso la pelle. Le ha ficcato nella vagina una barra piena di lame di rasoio.»
Sbatté il pugno sul tavolo.
«Non lo lascerò continuare!»
Il vecchio poliziotto inarcò un sopracciglio:
«Continuare?»
Paul si contorse sulla sedia, poi, con un gesto maldestro, tirò fuori i documenti che teneva arrotolati nella tasca interna del suo parka.
A malincuore disse:
«Ce ne sono tre.»
«Tre?»
«La prima è stata scoperta nel novembre scorso. Una seconda in gennaio. E ora questa. Ogni volta nel quartiere turco. Torturate e sfigurate nello stesso modo.»
Schiffer le guardava in silenzio, col cucchiaio sospeso a mezz’aria. Tutt’a un tratto Paul urlò, coprendo il vociare ippico:
«Santo Dio, Schiffer, non capisce? C’è un serial killer nel quartiere turco. Un tipo che se la prende esclusivamente con le clandestine. Donne che non esistono, in una zona che non è nemmeno più Francia!»
Jean-Louis Schiffer posò infine il suo yogurt e rimise i documenti tra le mani di Paul.
«Ce ne hai messo di tempo per venirmi a trovare.»
Fuori era comparso il sole. Le pozzanghere d’argento riaccendevano il grande cortile di ghiaia. Paul andava avanti e indietro davanti alla porta centrale aspettando che Jean-Louis Schiffer avesse finito di prepararsi.
Non c’era altra soluzione; lui lo sapeva, l’aveva sempre saputo. Il Cifra non poteva aiutarlo a distanza. Non poteva dargli consigli dal fondo del suo ospizio, né poteva dargli delle risposte per telefono ogni volta che a Paul mancava l’ispirazione. No. L’ex poliziotto doveva interrogare i turchi assieme a lui, doveva sfruttare i suoi contatti, rivoltare quel quartiere che conosceva meglio di chiunque altro.
Paul ebbe un fremito pensando alle conseguenze di quel passo. Nessuno ne era al corrente; né il giudice né i superiori. E non si sguinzagliava così un porco, noto per i suoi metodi brutali e fuori dai limiti: avrebbe dovuto tenerlo ben stretto alla corda.
Con un calcio, lanciò un sasso in una pozza d’acqua, confondendo la sua immagine riflessa. Cercava ancora di convincersi che la sua idea era stata buona. Come era arrivato fin là? Perché si accaniva su quell’inchiesta fino a quel punto? Perché fin dal primo omicidio si comportava come se la sua intera esistenza dipendesse dall’esito di quell’indagine?
Rifletté un istante, contemplando la sua immagine offuscata, poi dovette ammettere che la sua rabbia aveva un’origine lontana.
Tutto era cominciato con Reyna.
25 marzo 1994
Paul era apprezzato all’Ufficio stupefacenti. Otteneva solidi risultati sul campo, conduceva una vita regolare, ripassava le lezioni per il concorso da commissario — e vedeva persino allontanarsi, al fondo della sua coscienza, quei tagli nella finta pelle del sedile. Il suo carapace di sbirro funzionava come un’armatura stagna contro le vecchie angosce.
Quella sera accompagnava alla prefettura di Parigi un trafficante nordafricano che aveva interrogato per più di sei ore nel suo ufficio di Nanterre. Routine. Ma, giunto al quai des Orfèvres, assistette a una vera rivolta; decine di furgoni scaricavano grappoli di adolescenti urlanti e gesticolanti; sul lungofiume i poliziotti correvano in tutte le direzioni, mentre si sentiva l’urlo delle sirene delle ambulanze che intasavano il cortile dell’ospedale dell’Hôtel-Dieu.
Paul si informò. Una manifestazione contro il contratto di inserimento professionale era degenerata. Si diceva che in Place de la Nation ci fossero stati più di cento feriti tra le file della polizia e diverse decine tra i dimostranti; danni materiali per milioni di franchi.
Paul agguantò il suo indiziato e si sbrigò a scendere nei sotterranei. Se non avesse trovato posto nelle celle, sarebbe dovuto andare alla prigione della Santé o chissà dove, sempre con il suo prigioniero ammanettato al polso.
La casa circondariale lo accolse con il solito baccano, ma spinto a mille. Insulti, urla, sputi: i manifestanti si aggrappavano alle griglie, lanciando ingiurie alle quali i poliziotti rispondevano a colpi di manganello. Riuscì a ingabbiare il suo tipo e fece per andarsene in fretta, per sfuggire al casino e agli sputi.
Stava per svignarsela quando la vide.
Lei era seduta per terra, con le braccia intorno alle ginocchia, e sembrava piena di sdegno per il caos che la circondava. Lui si avvicinò. Lei aveva i capelli neri e diritti, un corpo androgino, un’aria cupa come la musica dei Joy Division uscita direttamente dagli anni Ottanta. Aveva persino una di quelle keffiah a quadri blu che solo Arafat osava ancora portare.
Sotto i capelli dal taglio punk, il viso era di una regolarità stupefacente; una precisione da figurina egizia, scolpita nel marmo bianco. Paul pensò alle sculture che aveva visto in una rivista. Forme naturalmente levigate, al tempo stesso dolci e pesanti, da nascondere nel palmo della mano e da tenere diritte su un dito, in perfetto equilibrio. Dei ciottoli magici, firmati da un artista di nome Brancusi.
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