Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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L'impero dei lupi: краткое содержание, описание и аннотация

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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Paul negoziò con il secondino, verificò che il nome della ragazza non fosse ancora stato scritto sul registro, poi la portò alla Sezione stupefacenti, al terzo piano. Mentre saliva le scale, fece rapidamente il conto dei suoi punti di forza e dei suoi handicap.

Sul versante punti di forza, era un bel ragazzo; o almeno era quello che gli lasciavano intendere le prostitute che gli fischiavano dietro quando passava nei quartieri caldi in cerca di spacciatori. Aveva capelli da indiano, lisci e neri. Lineamenti regolari e occhi color caffè. Un corpo secco e nervoso, non molto alto, ma rialzato dalla grossa suola degli anfibi. Sarebbe stato una specie di damerino se non avesse avuto cura di sfoggiare sempre uno sguardo duro, studiato davanti allo specchio, e una barba di tre giorni che guastava ad arte quella bella faccina.

Sul versante handicap, non ne vedeva che uno, ma bello grosso: era uno sbirro.

Quando controllò la fedina penale della ragazza, capì che l’ostacolo poteva essere insormontabile. Reyna Brendosa, ventiquattro armi, residente al 32 di rue Gabriel-Péri a Sarcelles, era membro attivo della Lega comunista rivoluzionaria, linea dura; affiliata a un gruppo anarco-insurrezionalista italiano; più volte arrestata per vandalismo, turbamento dell’ordine pubblico e percosse. Una vera bomba.

Paul abbandonò il computer e contemplò ancora una volta la creatura che lo fissava dall’altra parte della scrivania. Quei suoi occhi neri, messi in risalto dall’ombretto scuro, lo picchiavano più duramente dei due spacciatori zairesi che lo avevano pestato a Chateau-Rouge, in una sera di disattenzione.

Lui giocò con la sua carta d’identità, come fanno tutti i poliziotti, e chiese:

«Ti diverte spaccare tutto?»

Nessuna risposta.

«Non c’è nessun altro modo di esprimere le proprie idee?»

Nessuna risposta.

«Ti eccita la violenza?»

Nessuna risposta. Poi, all’improvviso, la voce, grave e lenta:

«La sola vera violenza è la proprietà privata. La spogliazione delle masse. L’alienazione delle coscienze. La peggiore di tutte, quella scritta e autorizzata nelle leggi.»

«Queste idee sono tutte tramontate: non ne sei al corrente?»

«Niente e nessuno potrà impedire lo sgretolamento del capitalismo.»

«E nell’attesa tu ti prenderai tre mesi di galera.»

Reyna Brendosa sorrise:

«Tu giochi a fare il soldatino, ma sei solo una pedina. Se ti soffio sopra, tu sparisci.»

Paul sorrise a sua volta. Non aveva mai provato per una donna un tale miscuglio di irritazione e di fascinazione, un desiderio così violento, ma anche così misto al timore.

Dopo la loro prima notte, lui aveva chiesto di rivederla; lei lo aveva trattato da «sporco sbirro». Un mese più tardi, quando ormai lei dormiva a casa sua tutte le sere, lui le aveva proposto di trasferirsi nel suo appartamento; lo aveva mandato a «farsi fottere». Più tardi ancora, lui aveva parlato di sposarla; lei era scoppiata a ridere.

Si erano poi sposati in Portogallo, vicino a Porto, nel villaggio natale di lei. Prima davanti al sindaco comunista, poi in una piccola chiesa. Un sincretismo di fede, di socialismo e di sole. Uno dei più bei ricordi di Paul.

I mesi successivi erano stati i più belli della sua vita. Non cessava di meravigliarsene. Reyna gli sembrava eterea, immateriale, poi, un attimo dopo, un gesto, un’espressione le conferivano una presenza, una sensualità incredibili, quasi animalesche. Lei poteva passare ore a sostenere le sue idee politiche, a descrivere utopie e citare filosofi di cui lui non aveva mai sentito parlare. E poi, con un solo bacio, ricordargli che era un essere rosso, organico, palpitante.

Il suo alito sapeva di sangue perché non la smetteva mai di mordicchiarsi le labbra. In ogni circostanza sembrava captare la respirazione del mondo, sembrava muoversi con gli ingranaggi profondi della natura. Possedeva una sorta di percezione interna dell’universo; qualche cosa di freatico, di sotterraneo, che la legava alle vibrazioni della Terra e agli istinti del vivente.

Lui amava quella sua lentezza che le conferiva una gravità da rintocco funebre. Amava la sua acuta sofferenza di fronte all’ingiustizia, alla miseria, alla deriva dell’umanità. Amava quella via al martirio che lei aveva imboccato e che elevava a tragedia il loro quotidiano. La vita con sua moglie sembrava un’ascesa, la preparazione all’incontro con un oracolo. Un cammino religioso, di trascendenza e di rigore.

Reyna, ovvero la vita come digiuno… Quella sensazione lasciava presagire quello che sarebbe successo. Alla fine dell’estate del 1994, lei gli annunciò di essere incinta. Lui prese la notizia come un tradimento: gli rubavano il suo sogno. Il suo ideale sprofondava nella banalità della fisiologia e della famiglia. Per la verità, sentiva che sarebbe stato privato di lei. In primo luogo fisicamente, ma anche moralmente. La vocazione di Reyna si sarebbe certamente modificata; la sua utopia si sarebbe incarnata nella sua metamorfosi interiore…

Dopo il parto, nell’aprile del 1995, i loro rapporti si raffreddarono definitivamente. L’uno e l’altra stavano intorno alla figlia come due esseri distanti. Malgrado la presenza del neonato, c’era nell’aria un che di funereo, una vibrazione morbosa. Paul capiva di essere diventato per Reyna oggetto di una totale repulsione.

Una notte, non resistendo più, chiese:

«Non mi desideri più?»

«No.»

«Non mi desidererai mai più?»

«No.»

Esitò, poi pose la domanda fatale:

«Mi hai mai desiderato?»

«No, mai.»

Per essere un poliziotto, non aveva avuto molto intuito su quella storia… Il loro incontro, la loro unione, il loro matrimonio, tutto era stato un bidone, un’impostura.

Una macchinazione il cui solo scopo era stata la bambina.

Per il divorzio bastò qualche mese. Di fronte al giudice, Paul crollò letteralmente. Sentiva una voce rauca risuonare nell’ufficio, ed era la sua; sentiva della carta vetrata attaccargli il viso, ed era la sua stessa barba; galleggiava nella stanza come un fantasma, uno spettro allucinato. Aveva detto di sì a tutto, alimenti e affidamento della bambina, non si era battuto su niente. Se ne fotteva, preferiva meditare sulla perfidia del complotto. Era stato vittima di una collettivizzazione di tipo un po’ particolare… Reyna la marxista si era appropriata del suo sperma. Aveva praticato una fecondazione in vivo secondo il sistema comunista.

La cosa più strana era che lui non riusciva a odiarla. Al contrario, ammirava ancora quell’intellettuale estranea al desiderio. Ne era certo: lei non avrebbe mai più avuto rapporti sessuali. Né con un uomo né con una donna. E l’idea di quella creatura idealista che voleva semplicemente dare la vita, senza passare né attraverso il piacere né attraverso la condivisione, lo lasciava inebetito, senza senso e senza idee.

A partire da quel momento aveva cominciato ad andare alla deriva, come un fiume di acque sporche che cerca il suo mare di fango. Sul lavoro andava sempre peggio. Non metteva più piede nel suo ufficio a Nanterre. Passava la sua vita nei quartieri più malfamati, accanto alla peggiore teppaglia, fumava spinelli a raffica, viveva con i trafficanti e gli sballati, spassandosela con i peggiori rifiuti dell’umanità…

Poi, nella primavera del 1998, aveva accettato di vederla.

Si chiamava Céline e aveva tre anni. I primi weekend erano stati mortali. Parco, giostre, zucchero filato: una noia senza fine. Poi, poco a poco, aveva scoperto una presenza inattesa. C’era una trasparenza nei gesti della bambina, nel suo viso, nelle sue espressioni; un flusso morbido, capriccioso e saltellante, di cui conosceva le vie segrete.

La mano girata verso l’esterno, con le dita strette, per sottolineare qualcosa. Un certo modo di sporgersi in avanti e di concludere quel movimento con una smorfia dispettosa. La voce un po’ arrochita, d’una grana affascinante e singolare, che lo faceva rabbrividire come il contatto con certi o con certe scorze. Sotto la bambina palpitava già una donna. Non sua madre, certo non lei, ma una creatura vispa, vivace, unica.

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