Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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«I dottori di Garches hanno chiamato un artista contemporaneo, spiegò Paul. Ora noi non siamo più in un ospedale, siamo dentro un’opera d’arte.»

Comparve un infermiere e indicò una porta sulla destra:

«Il dottor Scarbon vi raggiungerà nella sala.»

Lo seguirono e superarono altre stanze. Anch’esse azzurre, anch’esse vuote, sormontate talvolta da un bordo di luce bianca proiettato a qualche centimetro dal soffitto. Nel corridoio c’erano dei vasi di marmo ordinati secondo l’altezza e secondo un digradare di toni pastello: rosa, pesca, giallo, avorio, bianco… Sembrava che ovunque fosse all’opera una strana volontà di purezza.

L’ultima sala strappò al Cifra un fischio d’ammirazione.

Era un rettangolo senza divisioni, di circa cento metri quadri, assolutamente vergine, abitato solo dall’azzurro. A sinistra della porta d’entrata, tre alte vetrate ritagliavano il chiarore dell’esterno. Di fronte a queste tre figure di luce, nel muro opposto si aprivano tre archi come volte d’una chiesa greca. All’interno c’erano blocchi di marmo allineati, anch’essi turchesi, che sembravano spuntare direttamente dal pavimento.

Su uno di essi, un lenzuolo aderiva alla forma di un corpo.

Schiffer si avvicinò a una giara di marmo bianco sistemata al centro della stanza. Pesante e levigata, piena d’acqua, essa evocava un’acquasantiera dalle linee semplici e antiche. Agitata da un motore, l’acqua gorgogliante diffondeva un profumo di eucalipto destinato ad attenuare la puzza dei morti e l’odore del formolo.

Il poliziotto ci immerse le dita.

«Tutto questo non mi ringiovanisce.»

In quel momento si sentirono i passi del dottor Claude Scarbon. Schiffer si girò. I due uomini si squadrarono. A Paul bastò un’occhiata per capire che i due si conoscevano. Aveva chiamato il medico dall’ospizio senza dirgli del suo nuovo collega.

«Grazie di essere venuto, dottore», disse salutandolo.

Scarbon fece un cenno col capo, senza distogliere lo sguardo dal Cifra. Portava un cappotto di lana scura e aveva ancora indosso i guanti di capretto. Era un vecchio smunto. Sbatteva le palpebre continuamente, come se gli occhiali che aveva in punta al naso non gli fossero di alcuna utilità. Da sotto i suoi grossi baffi gallici usciva una voce trascinata da film d’anteguerra.

Paul fece un gesto verso il suo accompagnatore:

«Vi presento…»

«Ci conosciamo», intervenne Schiffer. «Salve dottore.»

Senza rispondere, Scarbon si tolse il cappotto e infilò una casacca appesa sotto una delle volte, poi infilò le mani in un paio di guanti di lattice il cui colore verde pallido si intonava con l’azzurro che li circondava.

Solo allora spostò il lenzuolo. L’odore della carne in decomposizione si spanse nella stanza, tagliando corto su ogni altra preoccupazione.

Suo malgrado, Paul distolse lo sguardo. Quando ebbe trovato il coraggio di guardare, scorse il corpo pesante e bianco, seminascosto dal lenzuolo ripiegato.

Schiffer si era infilato sotto l’arco e si era messo dei guanti chirurgici. Sul suo viso non si leggeva il minimo turbamento. Dietro di lui si staccavano dal muro due candelabri di ferro nero e una croce di legno. Con una voce neutra mormorò:

«OK dottore, può cominciare.»

12.

«La vittima è di sesso femminile, di razza caucasica. Il suo tono muscolare indica che aveva tra i venti e i trent’anni. Piuttosto abbondante. Settanta chili per un metro e sessanta. Se aggiungiamo che aveva i capelli rossi e la carnagione bianca tipica delle rosse, direi che corrisponde, fisicamente, allo stesso profilo delle prime due. Al nostro uomo piacciono così: sulla trentina, rosse, grassottelle.»

Scarbon parlava con un tono monocorde. Sembrava leggere mentalmente le righe del proprio rapporto, righe scolpite nella sua notte insonne,

Schiffer chiese:

«Nessun segno particolare?»

«Del tipo?»

«Tatuaggi. Fori alle orecchie. Segno della fede al dito. Cose che l’assassino non avrebbe potuto cancellare.»

«No.»

«Nerteaux mi ha detto che le dita indicavano un lavoro di cucitrice. Cosa ne pensate?»

Scarbon confermò con un cenno del capo:

«Sono donne che hanno praticato a lungo dei lavori manuali, è evidente.»

«È d’accordo con il lavoro di cucito?»

«È difficile essere veramente precisi. Ci sono tracce di punture nei solchi delle dita. Ci sono anche dei calli tra il pollice e l’indice. Forse sono dovuti all’uso di una macchina da cucire o di un ferro da stiro.»

Alzò lo sguardo al di sopra delle lenti e riprese:

«Sono ben state ritrovate vicino al quartiere del Sentier, no?»

«E allora?»

«Sono operaie turche.»

Schiffer non colse quel tono di sicurezza, continuava a osservare il torace. Suo malgrado, Paul si avvicinò. Vide le lacerazioni nere che si allungavano sui fianchi, sui seni, sulle spalle e sulle cosce. Molte di esse erano così profonde da mostrare il bianco delle ossa.

«Ci parli di queste», ordinò il Cifra.

Il medico scorse rapidamente alcune pagine pinzate.

«Su questa, ho contato ventisette tagli. Alcuni superficiali, alcuni profondi. Si può immaginare che l’assassino abbia intensificato le torture man mano che il tempo passava. Sulle altre due ce n’erano più o meno lo stesso numero.» Abbassò i fogli per osservare i suoi interlocutori. «In generale, tutto ciò che descrivo qui è valido anche per le precedenti vittime. Le tre donne sono state seviziate nella stessa maniera.»

«Con che arma?»

«Un coltello da combattimento, cromato, dotato di una lama seghettata. In diverse ferite si distingue nettamente l’impronta dei denti. Dopo l’esame dei primi due corpi avevo chiesto una ricerca dell’arma sulla base della dimensione e della distanza tra i denti, ma non ha dato alcun risultato. Materiale militare standard, corrispondente a decine di modelli.»

Il Cifra si sporse su altre ferite che si moltiplicavano sul busto, curiose aureole nere che suggerivano dei morsi o dei baci infuocati. Quando Paul aveva notato quel dettaglio sul primo cadavere, aveva pensato al diavolo. Un essere uscito dalla fornace per dilettarsi di quel corpo innocente.

«E questi?» chiese Schiffer tendendo l’indice. «Cosa sono? Dei morsi?»

«A prima vista si direbbero dei succhiotti. Ma ho trovato una spiegazione razionale a questi segni. Penso che l’omicida si serva di una batteria da auto per infliggere loro delle scosse elettriche. Più precisamente, credo che utilizzi le pinze dentate che si usano di solito per collegare i cavi. I segni delle labbra non sono altro che le impronte di queste pinze. Secondo me, bagna il corpo per accentuare le scariche. Ciò spiegherebbe le stigmate nere. Ce ne sono più di una ventina su questa.»

Brandì i suoi fogli.

«È tutto nel mio rapporto.»

Quelle informazioni Paul le conosceva bene; aveva letto e riletto i due primi verbali d’autopsia. Ma ogni volta sentiva la stessa repulsione, il medesimo rigetto. Non c’era alcun modo di provare empatia per una tale follia.

Schiffer si piazzò all’altezza delle gambe del cadavere; i piedi, nero-blu, erano piegati secondo un angolo impossibile.

«E là?»

Scarbon si avvicinò a sua volta, dall’altra parte del corpo. Sembravano due topografi che studiassero i rilievi di una carta.

«Le radiografie sono spettacolari. Tarsi, metatarsi, falangi: tutto è distrutto. Abbiamo contato circa settanta frammenti d’osso conficcati nei tessuti. Nessuna caduta avrebbe potuto provocare danni simili. L’assassino si è accanito su queste membra con un oggetto contundente. Una barra di ferro o una mazza da baseball. Le altre due hanno subito lo steso trattamento. Mi sono informato: è una tecnica di tortura tipicamente turca. La felaka , o il felika , non so altro.»

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