«In quale settore si usa questa tecnica?»
«Non ne ho idea. Cercate: è il vostro lavoro. E, ve lo ripeto, io non sono sicuro di niente. Quelle bolle possono avere una spiegazione completamente diversa. Nel qual caso, non saprei cosa dire.»
Schiffer riprese la parola:
«Sui tre cadaveri non c’è niente che possa darci indicazioni, fisicamente, sul nostro uomo?»
«Niente. Li lava accuratamente. In ogni modo, sono sicuro che li manipola con i guanti. Non ha rapporti sessuali con loro. Non le accarezza. Non le bacia. Non è roba per lui. Lui è piuttosto sul versante clinico. O su quello robotico. Questo assassino è… disincarnato.»
«La sua follia aumenta con gli omicidi?»
«No. Ogni volta le torture sono inflitte con lo stesso rigore. È ossessionato dal male, ma non perde mai le staffe.»
Ebbe un sorriso amaro.
«Un assassino puntiglioso, come dicono i manuali di criminologia.»
«Secondo lei, cos’è che lo fa godere?»
«La sofferenza. La sofferenza pura. Lui le tortura con applicazione, con cura, fino a che non muoiono. È questo dolore che lo eccita, che nutre il suo godimento. Dietro a tutto c’è un odio viscerale per le donne. Per il loro corpo, il loro viso.»
Schiffer si girò verso Paul e sogghignò:
«Decisamente oggi è la giornata degli psicologi.»
Scarbon diventò rosso in viso:
«La medicina legale è sempre psicologia. Le violenze che passano sotto le dita non sono altro che manifestazioni di menti malate…»
Il poliziotto annuì senza smettere di sorridere. Prese i fogli dattiloscritti che l’altro aveva posato su uno dei blocchi.
«Grazie dottore.»
Si diresse verso una porta che si apriva sotto le tre vetrate. Appena la aprì, entrò nella stanza una violenta sventagliata di sole, come un fiotto di latte lanciato in mezzo al blu.
Paul prese un’altra copia del verbale d’autopsia:
«Posso prenderla?»
Il medico lo fissò senza rispondere, poi:
«I suoi superiori sono al corrente di Schiffer?»
Paul si aprì in un largo sorriso:
«Non si preoccupi. È tutto sotto controllo.»
«Mi preoccupo per lei. È un mostro.»
Paul trasalì. Il dottore dichiarò:
«Ha ucciso Gazil Hemet.»
Il nome riaccese i suoi ricordi. Ottobre 2000: il turco maciullato sotto il treno, Schiffer accusato di omicidio volontario. Aprile 2001: l’accusa abbandona misteriosamente l’inchiesta. Con voce gelida replicò:
«Il corpo era a brandelli. L’autopsia non ha potuto provare niente.»
«Sono io che ho fatto la controperizia. Sul volto c’erano ferite atroci. Gli avevano strappato un occhio. Le tempie erano state perforate con punte da trapano.»
Indicò il lenzuolo.
«Niente da invidiare a questo qui.»
Paul sentì le gambe che vacillavano; non poteva ammettere che sull’uomo col quale stava per lavorare gravasse un simile sospetto:
«Il rapporto menzionava solo delle lesioni e…»
«Hanno fatto sparire i miei commenti. Loro lo coprono.»
«Loro chi?»
«Hanno paura. Hanno tutti paura.»
Paul indietreggiò nella luce dell’esterno. Claude Scarbon, togliendosi i guanti elastici, sussurrò:
« Lei sta facendo squadra con il diavolo. »
«Lo chiamano l’Iskele. Pronuncia bene: “is-ké-lé”.»
«Cosa?»
«Si potrebbe tradurre con “imbarcadero” o “molo di partenza”.»
«Di che cosa parla?»
Paul aveva raggiunto Schiffer nella macchina, ma non era partito. Erano ancora nel cortile del padiglione Vésale, all’ombra delle esili colonne. Il Cifra continuò:
«La principale organizzazione mafiosa che controlla i viaggi dei clandestini turchi in Europa. Si preoccupano anche di trovare loro un lavoro e un posto dove dormire. In genere cercano di formare in ogni laboratorio dei gruppi di gente con le stesse origini. Ci sono certe fabbrichette a Parigi che riproducono esattamente un intero villaggio dell’Anatolia.»
Schiffer si fermò, tamburellò sullo sportello del vano portaoggetti, poi riprese:
«Le tariffe sono variabili. I più ricchi si concedono l’aereo e la complicità dei doganieri. Sbarcano in Francia con un permesso di lavoro finto o con un falso passaporto. I più poveri si sobbarcano il tragitto in cargo, attraverso la Grecia, o in camion, attraverso la Bulgaria. In ogni caso, il costo si aggira sui duecentomila franchi. La famiglia, al paese, fa una colletta e raccoglie più o meno un terzo della somma. Poi l’operaio sgobba dieci anni per rimborsare il resto.»
Paul osservava Schiffer, il suo profilo netto contro il vetro illuminato dal sole. Gli avevano parlato a più riprese di quella rete, ma era la prima volta che ne sentiva una descrizione così precisa.
Il poliziotto dalla testa argentata proseguì:
«Non immagini fino a che punto sono organizzati quei tipi. Hanno un registro dove annotano tutto. Il nome, l’origine, la fabbrica e la situazione dei debiti di ogni clandestino. Comunicano per e-mail con i loro corrispondenti in Turchia che mantengono la pressione sulle famiglie. A Parigi loro si occupano di tutto. Si fanno carico di mandare i soldi a casa e di procurare comunicazioni telefoniche a prezzo ridotto. Si sostituiscono alla posta, alle banche, alle ambasciate. Vuoi mandare un gioco ai tuoi bambini? Ti rivolgi all’Iskele. Cerchi un ginecologo? L’Iskele ti dà il nome di un dottore che non badi troppo al tuo permesso di soggiorno. Hai problemi con la tua fabbrica? È ancora l’Iskele che regola la questione. Nel quartiere turco non c’è avvenimento di cui non siano informati o di cui non ci sia traccia nei loro archivi.»
Paul capì dove il Cifra voleva arrivare:
«Credi che siano al corrente anche degli omicidi?»
«Se queste ragazze sono davvero delle clandestine, i loro padroni si sono rivolti prima di tutto all’Iskele. Primo, per sapere cosa succedeva. Secondo, per rimpiazzare le scomparse. Quelle tipe trucidate sono soprattutto una perdita di grana.»
Nella sua mente si fece strada una speranza:
«Pensi che loro abbiano modo di identificare quelle operaie?»
«Ogni dossier comprende una fotografia dell’immigrato. Il suo indirizzo a Parigi. Il nome e i dati del suo datore di lavoro.»
Paul arrischiò un’altra domanda, ma sapeva già la risposta:
«Conosci quei tipi?»
«Il capo dell’Iskele a Parigi si chiama Marek Cesiuz. Tutti lo chiamano Marius. Ha un locale sul boulevard de Strasbourg. Ho visto nascere uno dei suoi figli.»
Gli strizzò l’occhio:
«Cosa ne diresti di partire?»
Paul guardò ancora Jean-Louis Schiffer. Lei sta facendo squadra con il diavolo. Può darsi che Scarbon avesse ragione, ma per il genere di preda a cui dava la caccia non si poteva desiderare compagno migliore.
Il lunedì mattina Anna Heymes lasciò discretamente il proprio appartamento e prese un taxi in direzione della riva sinistra della Senna. Si ricordava che, raggruppate intorno all’incrocio dell’Odéon, c’erano diverse librerie specializzate in testi di argomento medico.
Entrò in una di esse e guardò tra i libri di psichiatria e di neurochirurgia, in cerca di informazioni sulle biopsie praticate al cervello. Nella sua memoria risuonava ancora la parola pronunciata da Ackermann: «Biopsia stereotassica.» Senza difficoltà scovò delle fotografie e una descrizione dettagliata di quell’intervento.
Vide le teste dei pazienti, rasate, rinchiuse in un’armatura quadrata. Una sorta di cubo di metallo con due viti all’altezza delle terapie e sormontato da un trapano, un vero trapano.
Attraverso le immagini seguì ogni tappa dell’operazione. La punta che forava l’osso; lo scalpello che si insinuava nell’orifizio e che, a sua volta, attraversava la duramadre, la membrana che avvolgeva il cervello; e poi l’ago a testa cava che penetrava nella materia cerebrale. Su una fotografia, dove il chirurgo estraeva la sonda, si distingueva persino il colore rosastro dell’organo.
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