Con un accento gutturale, Schiffer sputò:
«Al-Falaqua.»
Paul si ricordò che il Cifra parlava correntemente il turco e l’arabo.
«Così, a memoria», proseguì, «posso citarle almeno dieci paesi che praticano questa tortura.»
«Bene. Siamo in pieno esotismo, vero?»
Schiffer risalì verso l’addome. Prese nuovamente una delle mani. Paul vide le dita annerite e gonfie. L’esperto commentò:
«Le unghie sono state strappate con una tenaglia. Le estremità sono state bruciate con l’acido.»
«Che acido?»
«È impossibile dirlo.»
«Non può essere una tecnica post mortem per distruggere le impronte?»
«Se è così, l’omicida ha fallito. I dermatoglifi sono perfettamente visibili. No, penso piuttosto a una tortura supplementare. L’assassino non è il tipo da sbagliare qualcosa.»
Il Cifra aveva posato la mano. La sua attenzione si focalizzava ora sul sesso aperto. Anche il dottore guardava la ferita. I topografi cominciavano ad assomigliare a degli avvoltoi.
«È stata violentata?»
«Non nel senso sessuale del termine.»
Per la prima volta Scarbon esitò. Paul abbassò gli occhi. Vide l’orifizio spalancato, dilatato, lacerato. Le parti interne, grandi labbra, piccole labbra, clitoride, erano voltate verso l’esterno, in un insostenibile rovesciamento di carne. Il medico si raschiò la gola e disse:
«Le ha infilato una specie di manganello tappezzato di lame da rasoio. Le lacerazioni si vedono bene, qui, all’interno della vulva, e là, lungo le cosce. Un vero macello. Il clitoride è sezionato. Le labbra sono tagliate. Ciò ha provocato un’emorragia interna. La prima vittima mostrava esattamente le stesse ferite. La seconda…»
Esitò di nuovo. Schiffer cercò il suo sguardo:
«Cosa?»
«La seconda era diversa. Penso che abbia utilizzato qualcosa di… vivo.»
«Di vivo?»
«Sì, un roditore. Una bestia di quel genere. Gli organi genitali esterni erano morsicati, lacerati, fino all’utero. Pare che dei torturatori abbiano usato questo metodo in America latina…»
Paul si sentiva la testa in una morsa. Conosceva quei dettagli, ma ognuno di essi lo feriva, ogni parola gli dava il batticuore. Macchinalmente, tuffò le dita nell’acqua profumata e si ricordò che il suo compagno aveva fatto il medesimo gesto qualche minuto prima. Le ritirò subito.
«Continui», ordinò Schiffer con voce roca.
Scarbon non rispose immediatamente; il silenzio riempì la sala turchese. I tre uomini sembravano comprendere che non potevano più tirarsi indietro; dovevano affrontare la faccia.
«È la parte più complessa», riprese infine il dottore inquadrando con gli ìndici il volto sfigurato. «Ci sono diversi stadi nella violenza.»
«Si spieghi.»
«Dapprima le contusioni. Il viso non è che un enorme ematoma. L’assassino ha colpito lungamente, selvaggiamente. Forse con un tirapugni. In ogni caso qualcosa di metallico e di più preciso di una barra o di un manganello. Poi ci sono i tagli e le mutilazioni. Queste ferite non hanno sanguinato. Sono state praticate post mortem.»
Ora erano vicinissimi alla maschera dell’orrore. Vedevano le ferite profonde in tutta la loro ferocia e senza la distanza abituale delle fotografie. Vedevano i tagli che attraversavano il viso, che rigavano la fronte e le tempie, i solchi che foravano le guance. Vedevano le mutilazioni: il naso tranciato, il mento smussato, le labbra tagliate…
«Vedete quanto me ciò che ha tagliato, limato, strappato. Quello che è interessante qui, è quanto si è applicato. Ha rifinito l’opera. È la sua firma. Nerteaux pensa che cerchi di copiare…»
«Lo so cosa pensa. E lei cosa pensa?»
Scarbon si tirò indietro, le mani dietro la schiena:
«L’uccisore è ossessionato da questi volti. Per lui rappresentano al tempo stesso una fonte di fascino e di collera. Li scolpisce, li modella, e insieme distrugge il loro carattere umano.»
Schiffer fece con le spalle un movimento che indicava il suo scetticismo.
«Di cosa è morta alla fine?»
«Gliel’ho detto. Emorragia interna. Provocata dal massacro degli organi genitali. Deve essersi svuotata in terra.»
«E le altre due?»
«La prima, anche lei un’emorragia. A meno che il cuore non l’abbia abbandonata prima. La seconda proprio non so. Forse semplicemente di terrore. Si può riassumere dicendo che queste tre donne sono morte per le sofferenze. Per questa stiamo facendo l’analisi del DNA e l’esame tossicologico, ma non penso che daranno più risultati delle volte precedenti.»
Scarbon tirò su il lenzuolo con un gesto secco, troppo frettoloso. Schiffer fece qualche passo prima di riprendere:
«Può dedurre una cronologia dei fatti?»
«Non mi lancerei in un orario dettagliato, ma si può supporre che questa donna sia stata rapita tre giorni fa, cioè giovedì sera. Senza dubbio stava uscendo dal lavoro.»
«Perché?»
«Aveva la pancia vuota. Come le prime due. Le sorprende quando rientrano a casa.»
«Evitiamo le supposizioni.»
Il medico sbuffò irritato:
«In seguito, ha subito da venti a trenta ore di torture, senza sosta.»
«Come può stabilire questa durata?»
«Sì è divincolata. Le legature le hanno bruciato la pelle e sono penetrate nella carne. Le ferite hanno suppurato. Si può risalire al tempo grazie alle infezioni. Da venti a trenta ore: non dovrei sbagliarmi di molto. In ogni caso, a quel ritmo è il limite della tolleranza umana.»
Continuando a camminare, Schiffer scrutava lo specchio azzurrato del pavimento:
«Ha un indizio che potrebbe darci informazioni sul luogo dell’omicidio?»
«Forse.»
Paul intervenne:
«Cosa?»
Scarbon fece schioccare le labbra come se fosse stato un ciak:
«Lo avevo già notato sulle altre due, ma è evidente sull’ultima. Il sangue della vittima contiene delle bolle d’azoto.»
«E questo cosa vuol dire?»
Paul tirò fuori il suo taccuino.
«È abbastanza strano. Potrebbe significare che il corpo è stato sottoposto, ancora in vita, a una pressione superiore a quella che c’è sulla superficie terrestre. Ad esempio la pressione che si trova in fondo al mare.»
Era la prima volta che il medico richiamava quel particolare.
«Io non sono un sub», riprese, «ma il fenomeno è noto. Man mano che ci si immerge, la pressione aumenta. L’azoto contenuto nel sangue si dissolve. Se si risale troppo velocemente, senza rispettare gli intervalli di decompressione, l’azoto ritorna subito allo stato gassoso e forma delle bolle nel corpo.»
Schiffer sembrava molto interessato.
«È quello che è successo alla vittima?»
«Alle tre vittime. Delle bolle d’azoto sono defluite e sono esplose nel loro organismo, provocando delle lesioni e, ben inteso, nuove sofferenze. Non ne sono certo al cento per cento, ma queste donne potrebbero aver avuto un “incidente di immersione”.»
Paul, annotando tutto, domandò ancora:
«Sarebbero state immerse a gran profondità?»
«Non ho detto questo. Secondo uno dei nostri medici che fa il sub, hanno subito una pressione di almeno quattro bar, equivalente a una profondità di circa quaranta metri. Mi sembra un po’ complicato trovare una tale massa d’acqua a Parigi. Penso piuttosto che siano state piazzate in una camera iperbarica.»
Paul scriveva febbrilmente:
«Dove si può trovare questo genere di arnesi?»
«Bisognerebbe informarsi. Ci sono le camere che usano i sub professionisti per la decompressione, ma dubito che ne esistano nell’Ile-de-France. Poi ci sono le camere iperbariche utilizzate negli ospedali.»
«Negli ospedali?»
«Sì. Per ossigenare i pazienti che soffrono di problemi vascolari. Diabete, eccesso di colesterolo… La sovrapressione permette di diffondere meglio l’ossigeno nell’organismo. Ci devono essere quattro o cinque apparecchi di quel tipo a Parigi. Ma non mi vedo il nostro assassino che entra in un ospedale. Sarebbe meglio orientarsi verso l’industria.»
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