Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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Qualsiasi cosa, ma non quella.

Anna aveva preso la sua decisione: doveva cercare qualcun altro per effettuare una nuova diagnosi; doveva consultare in fretta un secondo specialista che le proponesse un’alternativa, un trattamento differente.

Si precipitò in una brasserie del boulevard Saint-Germain, si infilò nella cabina telefonica al piano interrato e consultò l’elenco. Dopo diversi tentativi sfortunati presso medici che non erano in studio o che erano pieni di appuntamenti, arrivò infine al qualcuno che le sembrò più disponibile: Mathilde Wilcrau, psichiatra e psicanalista.

La voce della donna era profonda, ma il tono leggero, quasi malizioso. Anna riassunse brevemente i suoi «problemi di memoria» e insisté sull’urgenza del caso. La psichiatra accettò di riceverla subito. Vicino al Panthéon, a cinque minuti dall’Odéon.

Anna ora pazientava in una piccola sala d’aspetto arredata con mobili antichi, lucidi e cesellati, che sembravano usciti direttamente dalla reggia di Versailles. Sola nella stanza, osservava le fotografie incorniciate che decoravano le pareti: immagini di eventi sportivi in contesti estremi.

Su una gigantografia, una persona si staccava dal versante di una montagna appesa a un parapendio; su di un’altra, un alpinista col cappuccio scalava un muro di ghiaccio; in un’altra ancora, un tiratore imbacuccato in una tuta da sci puntava il suo fucile-cannocchiale su un bersaglio invisibile.

«Sono i miei exploit.»

Anna si girò verso la voce.

Mathilde Wilcrau era una donna alta dalle spalle larghe e dal sorriso splendente. Le sue braccia emergevano da sotto il tailleur in un modo brutale, quasi sconveniente. Le sue gambe, lunghe e affusolate, disegnavano curve di potenza. «Tra i quaranta e i cinquanta», stimò Anna, notando le rughe intorno agli occhi. Ma era difficile afferrare quella donna atletica in termini di età, non era una questione di anni, bensì di kilojoul.

La psichiatra si scostò:

«Per di qua.»

L’ufficio era in accordo con l’anticamera; legno, marmo e oro. Anna sentiva però che la verità di quella donna non si collocava in quell’arredamento prezioso, ma piuttosto nelle fotografie delle sue performance.

Si sedettero l’una di fronte all’altra a una scrivania color del fuoco. La dottoressa prese una stilografica e scrisse su di un blocco a quadretti le informazioni abituali. Nome, età, indirizzo… Anna era tentata di mentire sulla propria identità, ma aveva giurato a sé stessa di giocare onestamente.

Mentre rispondeva, osservava la sua interlocutrice. Era colpita dal suo aspetto brillante, ostentato, quasi americano. I suoi capelli biondi ricadevano sulle spalle; e il suo volto ampio e regolare sbocciava intorno a una bocca rossissima e sensuale che attirava lo sguardo. Le fece venire in mente l’immagine di un pasticcino alla frutta, pieno di zucchero e d’energia. Quella donna le ispirava una fiducia spontanea.

«Allora, qual è il problema?» chiese con tono allegro.

Anna si sforzò di essere concisa:

«Soffro di perdite della memoria.»

«Che genere di perdite?»

«Non riconosco più i volti familiari.»

«Tutti i volti familiari?»

«Soprattutto quello di mio marito.»

«Sia più precisa: non li riconosce per nulla? Mai?»

«No. Sono amnesie molto brevi. Per un attimo, il suo volto non mi ricorda niente. Un perfetto sconosciuto. Poi scatta qualcosa. Fino a ora, questi buchi neri duravano qualche secondo appena. Ma adesso mi sembra che stiano diventando sempre più lunghi.»

Mathilde tamburellava sul foglio con la penna, una Mont-Blanc laccata nera. Anna notò che si era tolta con discrezione le scarpe.

«È tutto?»

Esitò:

«A volte mi capita il contrario…»

«Il contrario?»

«Mi sembra di conoscere le facce di persone estranee.»

«Mi faccia un esempio.»

«Mi capita soprattutto con una persona. Da circa un mese, lavoro alla Maison du Chocolat, in rue du Faubourg-Saint-Honoré. C’è un cliente abituale. Un uomo d’una quarantina d’anni. Ogni volta che entra nel negozio io provo una sensazione familiare, ma non riesco mai ad avere un ricordo preciso.»

«E lui cosa dice?»

«Niente. Evidentemente non mi ha mai visto altrove, solo dietro al banco.»

Sotto la scrivania, la psichiatra muoveva le dita dei piedi chiuse nei collant neri. In tutto ciò che faceva c’era una nota allegra, frizzante.

«Riassumendo, lei non riconosce le persone che dovrebbe riconoscere, ma riconosce quelle che non conosce, è così?»

Prolungava le ultime sillabe in maniera singolare, come un vibrato di violoncello.

«Sì, le cose possono essere presentate così.»

«Ha mai provato un buon paio di occhiali?»

Anna divenne furiosa. Sentì salirle al viso un calore acuto. Come poteva prendersi gioco della sua malattia? Prese la borsa e si alzò. Mathilde Wilcrau si affrettò a fermarla:

«Mi scusi. Era una battuta idiota. Rimanga, la prego.»

Anna si bloccò. Quel sorriso rosso la avvolgeva come un alone di benessere. Ogni resistenza scomparve. Si lasciò cadere sulla poltrona.

La psichiatra riprese il suo posto e disse:

«Continuiamo, per cortesia. Le capita di essere a disagio davanti ad altri volti? Voglio dire, quelli che incontra tutti i giorni per strada, nei luoghi pubblici…»

«Sì, ma è una sensazione diversa. Mi prendono… come delle allucinazioni. Sull’autobus, durante le cene, ovunque. Le facce si confondono, si mescolano, formano delle maschere atroci. Non oso più guardare nessuno. Tra un po’ non uscirò più di casa…»

«Quanti anni ha?»

«Trentuno.»

«Da quanto tempo soffre di questi disturbi?»

«Un mese e mezzo circa.»

«E i disturbi sono accompagnati da un malessere fisico?»

«No… cioè, sì. Soprattutto segni di angoscia. Tremori. Il mio corpo diventa pesante. Le membra anchilosate. A volte mi sembra di soffocare. Recentemente mi è sanguinato il naso.»

«In generale il suo stato di salute è buono?»

«Eccellente. Niente da segnalare.»

La psichiatra fece una pausa. Prese a scrivere su di un bloc-notes.

«Soffre di altri disturbi della memoria, ad esempio cose che riguardano episodi del suo passato?»

Anna ci pensò con calma e rispose:

«Sì. Certi ricordi perdono consistenza. Sembrano allontanarsi, svanire.»

«Quali? Quelli che riguardano suo marito?»

Lei si irrigidì contro lo schienale.

«Perché mi chiede questo?»

«Evidentemente è soprattutto il suo viso che provoca le crisi. Forse il passato che condivide con lui le pone dei problemi.»

Anna sospirò. Quella donna la interrogava come se il suo male fosse dovuto ai sentimenti o al subcosciente, come se lei volontariamente ricacciasse indietro una parte della sua memoria. Quella lettura era completamente differente rispetto a quella di Ackermann. Non era forse questo ciò che era venuta a cercare?

«È vero», acconsentì. «I miei ricordi con Laurent si cancellano, spariscono.»

Si fermò, poi riprese con un tono più vivace:

«Da un certo punto di vista è anche logico.»

«Perché?»

«Laurent è al centro della mia vita, della mia memoria. È lui che occupa la maggior parte dei miei ricordi. Prima della Maison du Chocolat, io ero semplicemente una casalinga. La mia sola preoccupazione eravamo noi due.»

«Lei non ha mai lavorato?»

Anna assunse un tono aspro, prendendosi in giro da sola:

«Ho una laurea in legge, ma non ho mai messo piede nello studio di un avvocato. Non ho figli. Laurent è il mio tutto, il mio solo orizzonte…»

«Da quanti anni siete sposati?»

«Otto anni.»

«Avete rapporti sessuali normali?»

«Cosa intende con “normali”?»

«Opachi. Noiosi.»

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