Jean-Christophe Grangé - L'impero dei lupi

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Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.
Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati
, oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

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Anna non colse. Il sorriso si accentuò:

«Stavo di nuovo scherzando. Volevo solo sapere se avete rapporti regolari.»

«Sotto quell’aspetto va tutto bene. Anzi, ho… insomma, provo per lui un desiderio molto forte. Direi sempre più forte. È così strano.»

«Neanche troppo.»

«Cosa intende dure?»

Come risposta ci fu un silenzio.

«Che mestiere fa suo marito?»

«È un poliziotto.»

«Mi scusi?»

«Alto funzionario. Laurent dirige il Centro di studi e bilanci del Ministero degli interni. Controlla migliaia di rapporti, di statistiche concernenti i problemi della criminalità in Francia. Non ho mai capito bene il suo lavoro, ma ha l’aria di essere qualcosa di importante. È molto vicino al ministro.»

Mathilde riprese, come se tutto quello andasse da sé:

«Perché non avete figli? Ci sono problemi da quel lato?»

«Sicuramente non problemi fisiologici.»

«E allora perché?»

Anna esitò. Le tornò in mente la notte del sabato precedente: l’incubo, le rivelazioni di Laurent, il sangue sul viso…

«Veramente non so. Due giorni fa l’ho chiesto a mio marito. Mi ha risposto che sono io che non ne ho mai voluti. Su questo avrei persino richiesto un giuramento da parte sua. Ma io non me ne ricordo.»

La sua voce sali d’un tono.

«Come posso averlo dimenticato?»

Poi, scandendo le sillabe:

«Io-non-me-ne-ri-cor-do!»

La dottoressa scrisse qualche riga, poi chiese:

«E i suoi ricordi d’infanzia? Svaniscono anche quelli?»

«No. Mi sembrano lontani, ma ben presenti.»

«Ricordi dei suoi genitori?»

«No. Ho perso la mia famiglia molto presto. Un incidente d’auto. Sono cresciuta in collegio, vicino a Bordeaux, sotto la tutela di uno zio. Ora non lo vedo più. Non l’ho mai visto molto.»

«Allora di che cosa si ricorda?»

«Dei paesaggi. Le grandi spiagge delle Landes. Le pinete. Queste visioni restano intatte nella mia mente. Anzi, in questo momento diventano ancora più presenti. Quei paesaggi mi sembrano più reali di tutto il resto.»

Mathilde continuava a scrivere. Anna si accorse che, in realtà, scarabocchiava dei geroglifici. Senza alzare gli occhi, la specialista ripartì all’assalto.

«Come dorme? Soffre d’insonnia?»

«Al contrario. Dormo tutta la notte.»

«Quando fa uno sforzo per ricordare qualcosa, avverte una certa sonnolenza?»

«Sì, una specie di torpore.»

«Mi parli dei suoi sogni.»

«Dall’inizio della malattia faccio un sogno… strano.»

«La ascolto.»

Descrisse il sogno che agitava le sue notti. La stazione e i contadini. L’uomo dal mantello nero. La bandiera con le quattro lune. I singhiozzi dei bambini. Poi la burrasca dell’incubo: il torso vuoto, il viso a brandelli…

La psichiatra fece un fischio d’ammirazione. Anna non era certa di apprezzare quei modi familiari, ma, vicino a quella donna, provava una sensazione di conforto. All’improvviso, Mathilde la gelò:

«Ha consultato qualcun altro, vero?»

Anna trasalì.

«Un neurologo?»

«Io… Cosa glielo fa credere?»

«I suoi sintomi sono piuttosto clinici. Queste amnesie, queste distorsioni fanno pensare a una malattia neurodegenerativa. In questi casi, di solito il paziente preferisce consultare un neurologo. Un medico che localizzi chiaramente la malattia e che la curi con dei farmaci.»

Anna capitolò:

«Si chiama Ackermann. È un amico d’infanzia di mio marito.»

«Eric Ackermann?»

«Lo conosce?»

«Eravamo compagni di corso all’università.»

Anna chiese con ansia:

«Cosa pensa di lui?»

«Un uomo molto brillante. Quale è stata la sua diagnosi?»

«Più che altro mi ha sottoposto a esami. Tomografie. Radiografie. Una IRM.»

«Non ha utilizzato il Petscan?»

«Sì. Abbiamo fatto i test sabato scorso. In un ospedale pieno di soldati.»

«Il Val-de-Grace?»

«No, l’istituto Henri-Becquerel, a Orsay.»

Mathilde annotò il nome in un angolo del foglio.

«Quali sono stati i risultati?»

«Niente di molto chiaro. Secondo Ackermann soffro di una lesione situata nell’emisfero destro, nella parte ventrale del temporale…»

«La zona di riconoscimento dei volti.»

«Esattamente. Lui suppone che si tratti di una necrosi minima. Ma la macchina non l’ha localizzata.»

«Quale sarebbe la causa di questa lesione, secondo lui?»

Anna parlò più in fretta, quelle confessioni la sollevavano:

«Non ne ha idea, per l’appunto. Vuole effettuare dei nuovi esami.»

La sua voce si ruppe.

«Una biopsia per analizzare quella parte del mio cervello. Non so… vuole studiare le mie cellule nervose. Dice che solo a quella condizione potrà mettere a punto un trattamento.»

La psichiatra posò la sua stilografica e incrociò le braccia. Per la prima volta parve considerare Anna senza ironia, senza malizia:

«Gli ha parlato anche degli altri disturbi? Dei ricordi che scompaiono? Dei visi che si mescolano?»

«No.»

«Perché diffida di lui?»

Anna non rispose. Mathilde insistette:

«Perché è venuta a consultarmi? Perché spiattellarmi qui tutte queste cose?»

Anna fece un gesto vago, poi, abbassando le palpebre, disse:

«Mi rifiuto di sottopormi a quella biopsia. Loro vogliono entrare nel mio cervello.»

«Di chi parla?»

«Di mio marito e di Ackermann. Sono venuta da lei sperando che avesse una soluzione diversa. Non voglio che mi si faccia un buco in testa!»

«Si calmi.»

Alzò gli occhi, era sul punto di piangere:

«Posso… posso fumare?»

La psichiatra annuì. Si accese subito una sigaretta. Quando il fumo si dissipò, sulle labbra della sua interlocutrice era tornato il sorriso.

Inspiegabilmente, fu attraversata da un ricordo d’infanzia. Le lunghe camminate lungo i campi, con la sua classe, il ritorno al collegio, le braccia piene di papaveri. Le avevano spiegato che bisognava bruciare i gambi per far durare il colore …

Il sorriso di Mathilde Wilcrau le ricordò quella misteriosa alleanza tra il fuoco e la vivacità dei petali. Dentro quella donna, qualche cosa si era bruciato e manteneva il rosso delle labbra.

La psichiatra fece una nuova pausa, poi, con tono calmo, chiese:

«Ackermann le ha spiegato che un’amnesia può essere provocata anche da uno choc psicologico e non solo da una lesione fisica?»

Anna soffiò il fumo con violenza.

«Vuole dire che… che i miei disturbi potrebbero essere causati da un trauma… psichico?»

«È una possibilità. Un’emozione forte avrebbe potuto determinare una rimozione.»

Si sentì interamente invasa da un’onda di sollievo. Ora sapeva che era venuta proprio per sentire quelle parole; aveva scelto una psicanalista per giungere a una versione puramente psichica della sua malattia. Faticava a dominare l’eccitazione.

«Ma», disse tra due boccate di fumo, «di quello choc me ne ricorderei, no?»

«Non necessariamente. Nella maggior parte dei casi, l’amnesia cancella la propria causa, l’evento fondante.»

«E questo trauma riguarderebbe i volti?»

«Probabilmente sì. I volti e anche suo marito.»

Anna saltò sulla sedia:

«Come sarebbe? Mio marito?»

«A giudicare dai segni che mi descrive, sono questi i suoi due punti di blocco.»

«Quindi, alla base del mio choc emotivo ci sarebbe Laurent?»

«Non ho detto questo. Ma a mio avviso è tutto legato. Lo choc che ha subito, se esiste, ha favorito l’amalgama tra la sua amnesia e suo marito. È tutto quello che posso dire, per il momento.»

Anna restò in silenzio. Fissava la punta incandescente della sua sigaretta.

«Può prendere un po’ di tempo?» riprese Mathilde.

«Prendere tempo?»

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