Schiffer girava le pagine. Si fermò sulle fotografie dei cadaveri:
«Per la questione dei volti, ti sei fatto un’idea?»
Paul prese fiato; aveva riflettuto notti intere su quelle mutilazioni:
«Ci sono diverse possibilità. La prima è che l’assassino voglia semplicemente confondere le piste. Quelle donne lo conoscevano e la loro identificazione potrebbe portare a lui.»
«Allora perché non distrugge le dita e i denti?»
«Perché sono delle clandestine e non sono schedate da nessuna parte.»
Il Cifra accettò la spiegazione annuendo con il capo.
«La seconda?»
«Una ragione più… psicologica. Ho letto un sacco di libri sull’argomento. Secondo gli psicologi, quando un omicida distrugge gli organi dell’identificazione è perché conosce le sue vittime e non sopporta il loro sguardo. Allora annienta il loro statuto di esseri umani, le mantiene a distanza trasformandole in puri oggetti.»
Schiffer sfogliò nuovamente il plico.
«Questa roba da strizzacervelli non mi convince molto. Terza possibilità?»
«L’assassino ha problemi con i volti, in generale. C’è qualcosa nei lineamenti di quelle rosse che gli fa paura, che gli ricorda un trauma. Non deve solo ucciderle, deve anche sfigurarle. Secondo me, quelle donne si assomigliano. È il loro viso che fa scattare le sue crisi.»
«Ancora più fumoso.»
«Lei non ha visto i cadaveri», rispose Paul alzando la voce. «Abbiamo a che fare con un malato. Uno psicopatico allo stato puro. Tocca a noi sintonizzarci sulla sua follia.»
«E questo cos’è?»
Aveva aperto un’ultima busta contenente foto di sculture antiche. Teste, maschere, busti. Era stato Paul stesso a ritagliare quelle immagini dai cataloghi dei musei, dalle guide turistiche, da riviste come «Archeologia» o «Il Bollettino del Louvre».
«Un’idea mia», rispose. «Ho notato che i tagli assomigliano a screpolature, a crateri, come fossero dei segni nella pietra. Ci sono i nasi tranciati, le labbra tagliate, le ossa limate, tutte cose che ricordano le tracce dell’usura. Mi sono detto che l’omicida potrebbe ispirarsi a statue antiche.»
«D’accordo, vediamo.»
Paul si sentì arrossire. La sua idea era tirata per i capelli e, malgrado le sue ricerche, non aveva trovato il benché minimo esempio che potesse richiamare, da vicino o da lontano, le ferite dei Corpus. E tuttavia, senza esitazione, disse:
«Forse per l’assassino quelle donne sono delle dee, odiate e rispettate al tempo stesso. Sono sicuro che è turco e che è immerso nella mitologia mediterranea.»
«Tu hai troppa fantasia.»
«Non le è mai capitato di seguire il suo intuito?»
«Non ho mai seguito altro che il mio intuito. Ma credimi: tutte queste storie “psico” è roba troppo soggettiva. Bisogna piuttosto concentrarsi sui problemi tecnici che deve affrontare.»
Paul non era sicuro di capire. Schiffer proseguì:
«Si deve riflettere sul suo modus operandi. Se tu hai ragione, se quelle donne sono davvero delle clandestine, allora sono musulmane. E non delle musulmane di Istanbul, con i tacchi alti. Delle contadine, delle selvagge che camminano rasenti ai muri e non parlano una parola di francese. Per addomesticarle, bisogna conoscerle. E parlare turco. Forse il nostro uomo è il capo di un laboratorio. Un negoziante. O il responsabile di un centro per immigrati. Poi c’è la questione degli orari. Quelle operaie vivono sottoterra, nelle cantine, nei laboratori nascosti. L’assassino le becca quando ritornano in superficie. Quando? Come? Perché queste ragazze selvatiche accettano di seguirlo? È rispondendo a queste domande che risaliremo lungo la sua traccia.»
Paul era d’accordo, ma tutte quelle domande dimostravano soprattutto l’immensità di ciò che ignoravano. Tutto era possibile. Schiffer affrontò un nuovo argomento:
«Suppongo che tu abbia verificato gli omicidi dello stesso genere.»
«Ho consultato il nuovo archivio Chardon. E anche quello dei gendarmi: l’Anacrime. Ho interrogato tutti i ragazzi della Brigata criminale. In Francia non c’è mai stato un affare che ricordasse, neanche da lontano, una paranoia simile. Ho controllato anche in Germania, nella comunità turca. Niente.»
«E in Turchia.»
«Idem. Niente di niente.»
Schiffer prese una nuova direzione. Sembrava condurre un vero sopralluogo:
«Hai aumentato le pattuglie nel quartiere?»
«Ci siamo messi d’accordo con Monestier, il capo del commissariato di rue Louis-Blanc. Le ronde sono state rinforzate. Ma discretamente. Meglio non diffondere il panico nella zona.»
Schiffer scoppiò a ridere:
«Ma cosa credi? I turchi sono già al corrente della cosa, tutti.»
Paul glissò su quella frecciata:
«In ogni caso, fino a questo momento abbiamo evitato i media. È la sola garanzia per continuare da solo. Se si comincia a far rumore intorno alla faccenda, Bomarzo mette altri inquirenti nel caso. Per ora è una storia turca e tutti se ne fottono. Ho mano libera.»
«Perché di una questione del genere non si occupa la criminale?»
«Io vengo dalla criminale. Tengo ancora un piede là dentro. Bomarzo mi dà fiducia.»
«E non hai chiesto degli uomini in più?»
«No.»
«Non hai costituito un gruppo di indagine?»
«No.»
Il Cifra si lasciò scappare un sogghigno:
«La vuoi tutta per te, eh?»
Paul non rispose. Con il dorso della mano Schiffer spazzò via un pelucchio dai suoi pantaloni:
«Le tue motivazioni importano poco. Importano poco anche le mie. Lo becchiamo, vedrai.»
Giunto sulla tangenziale, Paul prese verso ovest, direzione Porte d’Auteuil.
«Non andiamo alla Râpée?» si stupì Schiffer.
«Il corpo è a Garches. All’ospedale Raymond-Poincarré. Laggiù c’è un istituto medico-legale incaricato di fare le autopsie per il tribunale di Versailles e…»
«Lo so. Perché là?»
«Questione di discrezione. Per evitare i giornalisti o i profiler dilettanti che stazionano costantemente all’obitorio di Parigi.»
Schiffer sembrava non ascoltarlo più. Osservava affascinato il movimento delle macchine. Di tanto in tanto strizzava gli occhi, come se si stesse abituando a una luce nuova. Assomigliava a un detenuto in libertà condizionale.
Mezz’ora più tardi, Paul passò il ponte di Suresnes e risalì lungo boulevard Sellier per proseguire sul boulevard de la République. Poi attraversò la cittadina di Saint-Cloud e raggiunse i confini di Garches.
Infine, in cima alla collina, apparve l’ospedale. Sei ettari di costruzioni, di sale operatorie e di camere bianche; una vera città, popolata da medici, infermieri e migliaia di pazienti, vittime, per la maggior parte, di incidenti stradali.
Si diresse verso il padiglione Vésale. Il sole era alto e sfiorava e accarezzava le facciate degli edifici in mattoni. Ogni muro proponeva una nuova sfumatura di rosso, di rosa, di crema, come se fossero stati cotti al forno con cura.
Qua e là, lungo i vialetti, si vedevano gruppi di visitatori con fiori e scatole di pasticcini. Camminavano con una rigidità quasi meccanica, come se fossero stati contaminati dal rigor mortis che regnava in quell’area.
Giunsero nel cortile interno del padiglione. L’edificio grigio e rosa, con la sua pensilina sostenuta da minuscole colonne, ricordava un sanatorio o uno stabilimento termale che nascondesse misteriose sorgenti curative.
Entrarono nell’obitorio e seguirono un corridoio piastrellato in ceramica bianca. Quando Schiffer vide la sala d’attesa, domandò:
«Dove siamo?»
Era una cosa da nulla, ma Paul era contento di stupirlo.
Qualche anno prima, l’istituto medico-legale di Garches era stato ristrutturato in maniera molto originale. La prima sala era tinteggiata in turchese; il colore ricopriva indistintamente il pavimento, i muri e il soffitto e annullava così ogni senso della dimensione, ogni punto di riferimento. Il si era immersi in un mare cristallizzato che distillava una limpidezza vivificante.
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