«Allora vuoi fare la lotta, eh, Lime. Che bello. Fatti sotto, figlio di puttana, dai, fatti sotto».
Sentii i passi pesanti di Oscar che si avvicinava urlando infuriato. Fintai con la sinistra, e l’irlandese rise della mia mossa troppo prevedibile spostando agilmente il peso del corpo. Il potente calcio che sferrai all’albero proprio accanto a lui fece vibrare i rami carichi di neve che si rovesciò in una cascata farinosa. Il mio avversario ne rimase temporaneamente accecato e perse l’equilibrio. Gli conficcai il piede nell’inguine, poi lo colpii alla gola con il taglio della mano destra tesa, come mi aveva insegnato Suzuki raccomandandomi di ricorrere a quella mossa solo in situazioni estreme, lo colpii alla gola. Sentii lo schiocco rivoltante e secco del suo collo che si rompeva.
Oscar mi era quasi addosso. Riuscii a schivare il colpo della sua mazza da golf, e contemporaneamente a fargli lo sgambetto che lo fece cadere lungo disteso nella neve. Si rialzò in un lampo e mi saltò addosso, stringendomi il costato tra le braccia fino a farmi uscire tutta l’aria dai polmoni. Lo colpii due volte con la mano sinistra cercando di centrarlo all’altezza della laringe. Al terzo colpo gli ruppi un sopracciglio, e un fiotto di sangue gli zampillò dal naso. Prese a spingermi all’indietro, nel tentativo di torcermi le braccia sulla schiena. Mi divincolai dalla sua stretta e gli piantai il gomito in un rene. Lui mugolò come un animale ferito, ma anziché stramazzare a terra, fece un giro su se stesso cercando la mazza fra la neve; allora lo colpii ancora una volta in faccia con la destra, talmente forte che le nocche mi si spaccarono. Oscar cadde all’indietro contro un albero, e i suoi occhi si fecero vitrei.
«Accidenti, Oscar. Io volevo solo parlare con te» dissi. «Volevo una spiegazione.»
Non riuscivo quasi a parlare.
«Perché Amelia? Perché Maria Luisa?» gli chiesi mentre cercavo di riprendere il controllo del respiro. Ormai nevicava fitto, e la neve sferzava il viso contuso di Oscar mescolandosi al rosso del sangue che gli usciva dal naso, dalle labbra e dal sopracciglio. Si portò la mano alla bocca e sputò un dente. Poi si lanciò di nuovo alla carica, ma la sua ira adesso era così folle da renderlo incapace di controllare i movimenti.
Scansai facilmente i suoi colpi goffi e scoordinati, finché non desistette, si voltò e si mise a correre lungo il sentiero. Rimasi un attimo interdetto, poi, istintivamente, mi lanciai al suo inseguimento. Lo sentivo ansimare a pochi metri da me, ma nella bufera solo a tratti riuscivo a scorgere il nero del suo cappotto.
Non so per quanto corressimo. I miei polmoni si contraevano dolorosamente, il ginocchio mi uccideva, ma non mi fermai. La neve cadeva così abbondante da ricoprire ogni impronta quasi nell’istante in cui nasceva. All’improvviso mi ritrovai fuori del bosco. Vidi che Oscar era caduto, e giaceva a diversi metri da me su una piatta, bianca distesa. Si alzò in piedi, ma ricadde e si tirò su di nuovo, quand’ecco che il ghiaccio del fiume su cui eravamo finiti cedette sotto i suoi piedi. Oscar liberò con uno strattone la gamba intrappolata, ma con uno scricchiolio sinistro il ghiaccio se la rimangiò. Si udì un altro scricchiolio e Oscar affondò fino alla cintola nell’acqua mortalmente fredda. Mi mossi per raggiungerlo avanzando con cautela sul ghiaccio che gemeva ad ogni mio passo.
Oscar mi guardava con occhi traboccanti di angoscia e disperazione. Fece un tentativo di sollevarsi fuori del buco puntellandosi con le braccia, con l’unico effetto di aprire una nuova crepa nel ghiaccio. La neve sferzava l’acqua nera attraverso lo squarcio sempre più minaccioso. Ero a un paio di metri da lui.
«Perché le hai uccise, Oscar?»
«Aiutami, Peter» disse. «Aiutami. Muoio di freddo.»
«Perché, Oscar?»
«Fu uno sbaglio. Jack e gli altri dovevano solo prendere quella fottuta foto e qualche altro negativo. Dovevano solo bruciare quei negativi del cazzo. Sarebbe sembrato un caso di furto qualsiasi. Ma Amelia li sentì, e invece di starsene buona, li affrontò, si difese. Allora quegli irlandesi bastardi persero il controllo, si fecero prendere la mano. Credevo che fosse tutto finito, invece quella maledetta foto saltò fuori di nuovo. Perché accidenti non lasciasti perdere? Tanto niente avrebbe potuto ridartele. Quel che era fatto era fatto, idiota che non sei altro. Eravamo amici. Lo pensavo davvero. Lo penso davvero. Uno sbaglio, è stato uno sbaglio.»
Non c’era pentimento nelle sue parole. Non abbastanza. L’assassinio della mia famiglia per lui era un errore deplorevole, una disgrazia da superare in fretta, perché bisognava pur andare avanti. Presi a indietreggiare lentamente verso la sponda mentre nuove crepe tagliavano sibilando la superficie gelata del fiume. Oscar mi stava ancora fissando quando, con un grido terribile, sparì sotto il ghiaccio, dove la corrente lo afferrò e lo trascinò via.
Raggiunsi il limitare del bosco e provai a orientarmi. Pensai che se avessi camminato parallelamente al corso del fiume, prima o poi mi sarei imbattuto in una strada o in un centro abitato. Dopo un attimo di indecisione mi mossi nella direzione in cui il fiume, scorrendo sotto la crosta gelata, trascinava il cadavere di Oscar. Avevo freddo. La mia testa era completamente vuota, e quando Igor più tardi mi trovò, avevo perso la cognizione del tempo e del luogo in cui mi trovavo. Ero sul punto di arrendermi e stendermi a dormire sotto una coltre di neve.
Telefonai a Clara dall’albergo. Al terzo squillo rispose. Sembrava affannata e la comunicazione via satellite dava alla sua voce una qualità metallica.
«Clara, sono io» dissi.
«Peter! Che bello sentirti! Stai bene? Dove sei?»
«A Mosca. Torno a casa stasera.»
«Tutto bene?»
«Tutto bene. È tutto finito.»
«In un modo che riuscirai ad accettare?»
«Ci saranno incubi, rimpianti, ma devo accettarlo, non ho scelta se voglio provare a ricominciare… insieme a te. Dimmi che verrai a Madrid.»
«Perché, Peter?»
«Ho bisogno di qualcuno che mi porti treppiede e rullini.»
Rise.
«Dai, Peter, Perché? Dillo.»
«Ho bisogno di te.»
«È già un passo avanti» disse.
«Sai cosa voglio dire.»
«Può darsi. Ma a volte fa bene esprimerlo a parole.»
«Verrai?» insistetti.
«E di cosa vivrò?»
«Io ho un sacco di soldi.»
«Sii serio. Cosa mi inventerò?»
«Mi porterai il treppiede.»
Rise di nuovo, ma sentivo che esitava, che aveva paura quanto me. Lasciammo che un intero minuto trascorresse ticchettando nel silenzio frusciante della linea telefonica. Guardai il traffico giù in strada: tutti gli abitanti di Mosca si affrettavano da qualche parte. Il tempo era cambiato, la temperatura era salita sopra lo zero e la città era tutta schizzi e sciabordii. Dal cornicione pendevano i ghiaccioli più grossi e micidiali che avessi mai visto. Avevo nostalgia di Madrid e della mia casa.
Infine Clara disse:
«Non lo so. Mi manca il coraggio. Mi sono già bruciata le ali una volta e…»
«Le prime scottature sono le peggiori.»
«Non posso darti una risposta. Almeno non subito» disse.
«Ti voglio, Clara. Ti voglio nella mia vita. Vieni a Madrid.»
«Vedremo. Forse verrò a trovarti. Forse no. Forse è meglio lasciar perdere. Proprio non lo so. Ma abbi cura di te.»
Mi sembrò sul punto di piangere e forse per questo riagganciò. Rimasi a lungo seduto con il ricevitore in mano a fissare il vuoto. Una parte di me si sentiva vinta, finita, esausta. Ma l’altra metà provava un senso di liberazione e quasi di speranza.
«Buffa lingua, il danese» disse Sjuganov.
Era seduto nella mia suite con una vodka in mano. Aveva un braccio al collo, e un vistoso cerotto su una tempia. Io me l’ero cavata con un ginocchio tumefatto e un principio di congelamento al piede destro. Seguire la direzione della corrente era stata una scelta fortunata, e dopo un’ora ero stato raggiunto da Igor che perlustrava la riva del fiume. Nonostante la bufera, da soldato ben addestrato qual era, era riuscito a scorgere le mie orme e a portarmi in salvo.
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