«Gloria, lo sai che mi piaci, ma io…»
«Su, fila, e telefonami.»
«Te la caverai?» chiesi.
«Mi prenderò una sbronza, oppure mi metterò a telefonare, non sono fatti tuoi. E adesso, da bravo, vattene.»
Presi un taxi fino a casa e telefonai a Clara, ma non era ancora tornata, oppure aveva staccato il telefono. Non c’era nemmeno una segreteria telefonica a cui affidare un messaggio. Scolai buona parte di una bottiglia di whisky, ma quando il viso rosso e disperato del tenente colonnello si riaffacciò alla mia mente, smisi di bere. Barcollando raggiunsi la camera da letto mentre brani di una delle mie poesie danesi preferite mi mulinava nel cervello. Erano versi della prima raccolta di Tom Kristensen, che in gioventù mi aveva conquistato fin dal titolo, Sogni corsari. Le parole «Il mondo è ripiombato nel caos» mi ronzavano nelle orecchie, ma non riuscivo a ricordare il verso seguente, e il bisogno di ritrovarlo divenne ossessivo. Non avevo la più pallida idea del perché fosse proprio quel verso a tormentarmi. E tra i fumi dell’alcol non riuscivo a ricordare in che punto della vasta biblioteca di Don Alfonso avessi collocato le mie edizioni di poeti danesi.
Derek da Londra mi aiutò con il passo successivo. Sapevo che aveva lavorato molto a Mosca e quando gli telefonai dicendogli che avevo bisogno di un contatto un po’ particolare in città, fu subito molto disponibile. Mi domandò di Oscar e Gloria, e gli dissi che stavano bene. Anch’io stavo bene, lui stava bene, tutto era OK. Dopo i convenevoli, Derek chiese:
«Di che genere di contatto hai bisogno, esattamente?».
«Di qualcuno che possa trovare una certa persona per me, indicarmela, e poi tenersi alla larga.»
«Allora hai deciso di ributtarti nella mischia! Complimenti, Lime!» disse.
«Proprio così.»
«Non dovrei chiederti chi è il bersaglio, ma te lo chiedo lo stesso.»
«Si tratta di Cristo, è stato avvistato a Mosca, non lo sapevi?» scherzai.
«Stavo solo pensando che magari potessi aver bisogno di un socio.»
«Derek, lo sai che lavoro sempre da solo» ribattei.
«Ricevuto. Bene, un paio di volte mi sono servito di un tizio. È sveglio, efficiente, un po’ equivoco, ha le mani in pasta, sai cosa intendo. Naturalmente costa…»
«I soldi non sono un problema» dissi.
«Ti chiederà circa mille dollari al giorno, più il premio.»
«Va bene. Che tipo è?»
«È un ex del KGB, o giù di lì. Mosca ne è piena. Sono quasi tutti vermi senza sostanza, ma il nostro è in gamba. Forse è un mafioso, forse è solo un uomo d’affari. Nella Mosca di oggi i confini sono un po’ confusi. È titolare di quella che chiama un’agenzia di consulenza per la sicurezza. Che altro dire? Ha sempre mantenuto la parola.»
«Dammi il suo numero» dissi.
«C’è un dettaglio» aggiunse Derek. «È molto pignolo e selettivo nella scelta dei clienti, per ragioni di sicurezza, naturalmente. Perciò dovrò telefonargli io; lui ti chiamerà solo dopo aver preso informazioni sul tuo conto. Come immaginerai non è sempre facilmente reperibile.»
«Okay, Derek. Chiamalo pure. Digli che si tratta di una cosa urgente, un affare che va concluso subito. Ti devo un favore.»
Derek rise:
«Scordatelo, Lime. Ho un sacco di debiti arretrati con te. Non mi devi un cazzo».
«Di’ al tuo amico che è una cosa urgente» ripetei.
«Lo farò. Salutami Gloria e Oscar e ringraziali ancora da parte mia per la bella serata che abbiamo trascorso insieme a Londra.»
«Senz’altro» dissi.
Trascorsi alcuni giorni di attesa gironzolando per casa e sforzandomi di non bere.
Mi dedicai a sistemare i miei libri in ordine alfabetico per autore e a mangiare le pietanze di Doña Carmen. Dopo la morte di Don Alfonso, aveva continuato a venire e io non me la sentivo di licenziarla. Non provai a richiamare Clara, in compenso parlavo con Gloria un paio di volte al giorno. C’era una vulnerabilità segreta nella sua voce, ma il tono era sbrigativo e professionale quando mi aggiornava sui progressi della sua vendetta. Eravamo un duo molto triste.
Finalmente una mattina telefonò Sergej Sjuganov. Dal suo inglese si sarebbe detto che avesse frequentato i migliori collegi d’Inghilterra, ma più probabilmente il suo impeccabile accento oxfordiano era il frutto della vecchia scuola di lingue per diplomatici di Mosca, magari di un periodo trascorso a lavorare all’ambasciata di Londra.
«Mr. Lime, mi dicono che lei desidera concludere un affare con me» disse.
«Vorrei che lei trovasse qualcuno. Si tratta di…»
Mi interruppe.
«Mi scusi, Mr. Lime. Non al telefono.»
«Incontriamoci, allora.»
«All’aeroporto di Francoforte, la sala vip della zona centrale, vicino al duty-free, domani pomeriggio. Ci sono due voli che atterrano quasi alla stessa ora da Mosca e da Madrid.»
«D’accordo. Come la riconoscerò?»
«La troverò io. Alto, giubbotto di pelle, codino, jeans. Avrà con sé una copia di “El Pais”.»
«Okay» dissi.
«Porti una foto del bersaglio. A domani, Mr. Lime» e riattaccò.
Il pomeriggio successivo, all’aeroporto di Francoforte, comprai una Coca e mi sedetti a un tavolo ad aspettare con «El Pais» davanti. Mezz’ora dopo un tipo sportivo e tarchiato, suppergiù della mia età, si sedette di fronte a me e mi tese la mano.
«Sergej Sjuganov» disse. Indossava un impeccabile abito scuro, una camicia bianchissima e una bella cravatta tenuta con fermacravatte d’oro. Al polso portava un Rolex e profumava di un costoso dopobarba. Il suo viso era solcato da piccole, sottili rughe, abbronzato, come se si concedesse vacanze di lusso o frequentasse abitualmente un solarium. I suoi occhi erano di un azzurro intenso. La sua stretta di mano fu forte e secca.
«Caffè, Mr. Sjuganov?»
«Sì, grazie. Abbiamo meno di mezz’ora, Mr. Lime. Torno a Mosca con il volo Lufthansa.»
Andai al bar e tornai con una tazza di caffè per lui e un’altra Coca per me. Gli avevo portato un paio di foto recenti di Oscar. Le avevo scattate io stesso. Ce n’era una a figura intera, un ritratto di fronte e uno in cui si vedeva più di profilo. Diedi le foto a Sjuganov, che le esaminò.
«È molto alto» disse. «Sui cinquanta. Elegante. Sicuro di sé. Ricco. Si tiene in forma, ma ha una tendenza alla pancetta. Dà nell’occhio. Mi dia qualche informazione su di lui: lingue, nazionalità, background.»
Gli dissi che Oscar era cittadino tedesco, oltre al tedesco parlava l’inglese e lo spagnolo, forse un po’ di russo. Era abituato a viaggiare. Era stato addestrato dalla STASI e aveva una storia un po’ torbida, che gli riassunsi…
Notai un guizzo nei suoi freddi occhi azzurri.
«Ah! Naturalmente questo complica un po’ le cose.»
«In che senso?» domandai.
«È più difficile trovare qualcuno abituato a confondere e a cancellare le proprie tracce. Le verrà a costare qualcosa in più, Mr. Lime. Che cosa, precisamente, vuole che faccia con quest’uomo?»
«Che lo trovi. Credo che sia a Mosca. Deve essere arrivato poco più di una settimana fa. Questo è tutto quello che so» dissi.
«Io costo mille dollari al giorno. Lei trasferirà diecimila dollari come deposito su un conto in Svizzera. Tutte le spese dell’operazione sono a carico suo. Più un premio di diecimila dollari.»
«E se non dovesse trovarlo?»
Sjuganov sorrise di nuovo:
«Un tedesco alto due metri, a Mosca da poco più di una settimana. Lo troveremo. Abbiamo le nostre conoscenze. È solo una questione di soldi e non ci vorrà più di una settimana. Se il bersaglio ha lasciato Mosca, sarà un po’ più complicato, ma non impossibile. Se non dovessimo trovarlo, lei pagherà solo le spese effettive, ma questa è un’ipotesi assurda. Lo troveremo, vivo o morto».
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