«Come sono le previsioni del tempo per domani?» domandai.
«Gelo e sole, neve nel pomeriggio. Una giornata invernale come piace a noi russi. La mattina ideale per una passeggiata nel bosco» rispose Sjuganov e mi guardò come a dire che adesso la palla si trovava nella mia metà campo.
Riflettei un po’ e infine dissi:
«Andiamoci domani. Ho bisogno del vostro aiuto per tenere uno o entrambi i gorilla lontani, mentre io parlo con il mio ex amico e ascolto quel che ha da dire.»
«Le serve un’arma?» chiese Sjuganov.
«No. Non sarà necessario. Niente sparatorie. Solo una chiacchierata amichevole.»
«È proprio questo che mi fa paura» disse Sjuganov.
«Domani» dissi io.
«Per noi va bene. È il cliente che decide. Questa è la legge fondamentale dell’economia di mercato. Si faccia trovare pronto qui in albergo domani mattina alle otto. Bisognerà che le procuriamo degli abiti più adatti, però» disse Sjuganov. «Credo di avere la sua stessa taglia. Che numero di scarpe porta?»
«Quarantaquattro, quarantaquattro e mezzo» risposi.
Con fare formale mi tese la mano; gliela strinsi:
«Ci sarà anche lei?» gli domandai.
«Verrò insieme a Igor, mio amico e collega dei vecchi tempi.»
«Quali vecchi tempi?»
«I tempi della falce e martello. Igor era nella mia ultima squadra, specializzata in raccolta di informazioni, sabotaggio, infiltrazione e gestione dei nemici dello stato. È uno degli elementi migliori che abbia mai avuto. Poi è finito tutto e ci siamo messi in proprio. Anche nella nuova Russia non corro certo il rischio di rimanere disoccupato.» Fece un cenno in direzione dell’uomo silenzioso seduto accanto alla porta e i due sparirono, lasciandomi solo nella stanza con la vista sui tetti ammantati di neve.
Provavo uno strano senso di vuoto. Avrei dovuto sentirmi spaventato, teso, ma per il momento non ero né l’una né l’altra cosa. Poi, guardando ancora le foto di Oscar e Lola, sentii la rabbia che tornava a insinuarsi nel mio animo. Il fatto che Oscar avesse avuto una doppia vita per tanti anni, che avesse servito una dittatura, mi sgomentava. Ma quei fatti appartenevano al passato, non riguardavano specificamente lui e me. Non stava a me condannarlo oppure perdonarlo. L’assassinio di Amelia e Maria Luisa, invece, mi riguardava direttamente. E sia che avesse messo la bomba con le proprie mani, sia che avesse delegato quel compito ad altri, consideravo Oscar responsabile.
Ero a Mosca perché volevo sapere, volevo sentirmi dire, che le due persone che più avevo amato in vita mia erano morte a causa sua. Vittime del suo egoismo e della sua sete di potere, del suo disperato tentativo di seppellire il passato e far finta che non fosse mai esistito. Aveva fatto l’impossibile per nascondere il suo segreto, finché la mia foto era saltata fuori, una dimostrazione del fatto che non ci sarebbe mai riuscito. Perché c’è sempre qualcuno che ricorda, c’è sempre un’altra foto o una didascalia che qualcuno ha tralasciato di cancellare.
L’indomani, alle otto meno qualche minuto, Sjuganov bussò alla mia porta. Avevo dormito male. La stanza era troppo calda, ma a quanto sembrava, abbassare il riscaldamento era impossibile. Più volte nella notte, ero stato tentato di scendere in uno dei numerosi bar o nel casinò dell’albergo. Ma non lo avevo fatto. Avevo bevuto quasi un’intera bottiglia di vino e avevo guardato la CNN alla televisione. Avevo sollevato il ricevitore del telefono americano AT&T per chiamare Gloria e Clara, ma poi avevo cambiato idea. Avevo contemplato i tetti e i pennacchi di fumo fuori della finestra. A giorno fatto mi ero finalmente addormentato.
Sjuganov, vestito di nero da capo a piedi, entrò a passi energici nella stanza. Aveva con sé una borsa sportiva contenente un paio di pantaloni pesanti, una canottiera di lana, un maglione, calze, giacca a vento, scarponi, guanti e uno zuccotto da sci azzurro.
«Fa freddo oggi» disse. «C’è vento e la neve arriverà prima del previsto. Indossi questi, poi ci muoveremo. Ho già mandato due uomini sul campo. Ci avviseranno se il bersaglio uscirà. Se non lo farà, dovremo rimandare l’operazione a domani.»
I vestiti e gli scarponi mi stavano a pennello. Quando uscimmo dall’albergo non mi sembrò che facesse tanto freddo. Nell’aria c’era umidità e una sensazione di neve. Montammo sul sedile posteriore della Mercedes nera e Sjuganov mi porse un grosso bicchiere di plastica pieno di caffè e un panino fresco al formaggio. Igor occupava il sedile anteriore accanto all’autista, che si sarebbe detto un suo clone: aveva gli stessi capelli a spazzola, lo stesso giubbotto di pelle e la stessa espressione vigile stampata in volto.
Il traffico era intenso e i vigili imbacuccati nei cappotti neri onnipresenti. Quasi informi nelle divise spesse, stavano piantati in mezzo alle corsie agitando le palette. Quando uno di loro ci fece cenno di accostare, vidi l’autista tendergli un documento e una banconota. Quello gli restituì il documento senza guardarlo e ripartimmo.
Mentre bevevo il caffè dolce e caldo, immaginai che quella non fosse che una delle mie solite spedizioni: avevo ingaggiato qualcuno perché mi aiutasse a scovare una celebrità, e adesso settimane di ricerche stavano finalmente per dare i loro frutti. Presto mi sarei trovato di fronte alla mia preda ignara. Ma la realtà era diversa, e questa volta non avevo portato né la Leica né la Nikon.
Dopo circa un quarto d’ora, l’automobile superò un grande arco di trionfo, e subito dopo, sulla sinistra, scorsi un altro monumento in lontananza.
Sjuganov parlò.
«Ha visto? Celebrano due vittorie fondamentali per questo paese. L’arco è per il 1818, quando sconfiggemmo Napoleone. Il secondo monumento commemora la vittoria sui tedeschi. Siamo un paese costruito con il sangue e con gli scheletri. Non abbiamo molto di cui andare fieri. Per questo coltiviamo il ricordo della guerra e delle nostre vittorie in guerra. Soprattutto la nostra vittoria contro Hitler ci unisce. È l’unica cosa pulita che ci rimane. L’unica cosa che ancora sentiamo si avere in comune, Mr. Lime. La Russia è sinonimo di sofferenza. In questo maledetto paese non c’è una sola famiglia che non abbia una storia di guerra e di morte da raccontare».
Svoltammo a destra e costeggiammo un gruppo di caseggiati azzurri, poi la strada si restrinse e cominciammo ad avanzare tra le betulle. Per non pensare a Oscar e al nostro imminente incontro, domandai:
«Sjuganov, qual è la sua opinione circa il cambiamento? Il crollo del comunismo, la nuova Russia».
«Siamo a un guado, Mr. Lime. Viviamo in una società capitalistica che è in mano ai ladri, e la Duma e il Cremlino pullulano di delinquenti. Ma è un momento di passaggio. Io ho servito il socialismo, non con grande convinzione, ma perché ero un patriota russo. E lo sono ancora. Sono per la democrazia e per l’economia di mercato. Per quest’ultima perché mi ha arricchito. Per la prima perché rappresenta il futuro. E quando uno ha dei figli deve pensare al futuro.»
«Lei ha figli?»
«Un ragazzo di diciassette anni e una ragazza di quattordici. Il maschio è in collegio in Inghilterra; La femmina frequenta una scuola privata inglese qui a Mosca. Sono loro la nuova Russia. Dimenticheranno l’eredità degli scheletri. Sono convinto che siamo sulla strada giusta, ma spetterà alle nuove generazioni liberare la Russia dalle tenebre.»
«Che cosa dicono i suoi figli del lavoro del padre?»
Deglutì.
«I ragazzi non sanno niente del mio lavoro. Sono un uomo d’affari. Per tutta la vita ho lavorato diciotto ore al giorno. Prima lo stato e il partito mi elargivano soldi e privilegi in cambio dei miei servizi. Oggi mi procuro tutto da me. Ho una bella casa, mia moglie può andare a fare la spesa nei nuovi supermercati. Andiamo in vacanza in Florida. In cambio del mio lavoro non ricevo più medaglie, ma soldi. Ho rinunciato a considerare la mia vita da un punto di vista morale. La mia esistenza è votata al benessere della mia famiglia e alla soddisfazione dei miei clienti. Lei non è tipo da condannare questo atteggiamento, vero?»
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