Leif Davidsen - Quando il ghiaccio si scioglie

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Quando il ghiaccio si scioglie: краткое содержание, описание и аннотация

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Peter Lime, danese, professione fotografo, è felicemente sposato e dirige una fiorente agenzia. Durante un appostamento per un servizio scandalistico, scatta di nascosto una serie di foto compromettenti a un ministro del governo spagnolo impegnato in calde effusioni con una giovane starlette televisiva. E’ l’inizio di un’allucinante spirale di misteri e violenza che lo risucchia senza possibilità di scampo. La chiave è forse nascosta in un’altra immagine, scattata vent’anni prima e nell’identità misteriosa della donna che vi è ritratta.

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«Neanche per sogno» risposi.

Proseguimmo in silenzio sulla strada che si inoltrava nel bosco di betulle. Da molto tempo non vedevo tanta neve, sulla terra, sui rami, sui tetti delle case. Attraversammo un paio di cittadine, e di fianco a un caffè mi parve di riconoscere il mercato della foto. Sjuganov mi guardò annuendo: «Ci siamo quasi».

Entrammo in una specie di radura e l’autista spense il motore. Igor e Sjuganov scesero dall’auto e indossarono una tuta bianca con cappuccio che tirarono fuori dal baule. Sjuganov parlò sottovoce in russo nel suo walkie-talkie, e ricevette una gracchiante e concisa risposta.

«Il bersaglio non ha ancora lasciato la villa. Lei aspetti in macchina, così non sentirà freddo.»

Igor si mise ai piedi un paio di sci corti e si addentrò agilmente nel bosco. Con la tuta bianca quasi impercettibilmente intessuta di fili dorati, sparì ben presto alla vista, perfettamente mimetizzato con i colori della neve e delle betulle. Rimasi seduto sul sedile posteriore. L’autista girò la chiavetta dell’accensione e accese il ventilatore, e Sjuganov mi offrì un’altra tazza di caffè. Mi sembrava di stare lavorando. Mi trovavo sul posto, ero pronto. Adesso non mi restava che aspettare.

Dopo circa mezz’ora il walkie-talkie di Sjuganov gracchiò, e lui rispose sbrigativamente. A un suo cenno scesi dalla macchina. Il cielo era greve e la neve sempre più vicina.

«Il bersaglio sta arrivando» annunciò Sjuganov. «C’è anche la donna, e il grosso irlandese, come al solito, li segue a distanza di una decina di metri. Anche se tra loro parlano tedesco, probabilmente i due preferiscono non farsi sentire da lui.»

«Sono pronto» dissi infilandomi i guanti e abbassandomi il cappello sulle orecchie.

«Sa sciare, Lime?» mi domandò.

«Assolutamente no» risposi.

«La guiderò io fino al bersaglio. Poi tornerò un po’ indietro e mi porterò tra la guardia del corpo e il bersaglio. Quanto tempo le occorrerà?»

«Cinque minuti. Il tempo di fargli una domanda.»

Sjuganov mi guardò perplesso, parlò brevemente nel walkie-talkie, e ci incamminammo. Seguimmo le forme degli sci di Igor e ben presto ci ritrovammo nel folto del bosco. Sebbene fossimo a poche centinaia di metri dalla strada principale, perdetti quasi subito il senso dell’orientamento. Neve, betulle e sterpaglia: lì attorno non c’era altro, e tutti gli scorci si assomigliavano. Se Sjuganov mi avesse abbandonato mi sarei smarrito con molta facilità. Lui procedeva agile e spedito nella mimetica bianca, mentre io sprofondavo in continuazione nei punti in cui la neve era più alta, oppure restavo impigliato in un ramo. Dopo una decina di minuti ci ritrovammo su un sentiero. Qui la neve era compatta, calpestata da diverse paia di scarponi e striata da tracce di sci. Eravamo in cima a una specie di collinetta, da cui dominavamo un lungo tratto del sentiero.

«Io aspetto qui» disse Sjuganov. «Se vuole, può allontanarsi un po’ e nascondersi dietro un albero. Il bersaglio e la donna passeranno davanti a me, così potrò bloccare la guardia del corpo.»

«Non la vedranno?» domandai stupidamente: infatti a mo’ di risposta estrasse una pistola a canna lunga da sotto la tuta e con un cenno del capo mi fece capire che dovevo sbrigarmi. Feci come aveva detto. Quando fui dietro l’albero cercai con lo sguardo Sjuganov, ma non vidi altro che neve, betulle e cespugli.

Udii Lola e Oscar ancor prima di vederli. Stavano litigando. Il tedesco di Lola era spedito e fluente. Mi parve che discutessero di soldi, ma da quella distanza non potevo esserne sicuro. Mi accovacciai e sbirciai da dietro il tronco.

Oscar batteva la mazza da golf contro i cumuli di neve e i rami. Era un’immagine assurda. Chissà, magari era impazzito.

Oltrepassarono il punto in cui pensavo fosse appostato Sjuganov, e si diressero verso di me. Quando furono a una distanza di circa cinque metri, apparve il grosso irlandese, e fu come se Sjuganov si materializzasse nella neve alle sue spalle. Vidi il gorilla irrigidirsi mentre, con tutta probabilità, Sjuganov gli bisbigliava una minaccia all’orecchio e gli piantava la canna della pistola nella schiena.

«Questo paese mi fa schifo» diceva Oscar. «Che cazzo posso fare? Gloria mi ha ripulito e visto che tu non vuoi darmi altro che spiccioli, allora…»

«Devi avere pazienza, Karl Heinrich. Troviamo un accordo» disse Lola. «Posso proporti…»

«Sono stufo delle tue fottute proposte» gridò Oscar conficcando la mazza in un cumulo di neve e sollevando una cascata bianca. Lola si scostò e inarcò le sopracciglia ben delineate, visibilmente infastidita da quelle bambinate.

Uscii dal mio nascondiglio.

«In Russia non ci sono molti campi da golf, Oscar» dissi in inglese.

Per qualche attimo lui rimase completamente immobile, quasi che il gelo lo avesse trasformato in ghiaccio. Avevo immaginato e sognato quel confronto tante volte negli ultimi giorni, e adesso non provavo altro che disprezzo. Oscar aveva una brutta cera. Il suo viso era pallido e pieno di rughe sotto il colbacco, gli occhi lacrimosi e iniettati di sangue. Erano gli occhi di quando si abbandonava ai vizi, alcol e anfetamine. Di quando dormiva poco e diventava irascibile e aggressivo. Si riscosse, si guardò alle spalle e vide che l’irlandese non arrivava.

«Il tuo amico ha da fare, Oscar» dissi.

« Fottiti , Lime» sibilò Oscar con voce arrochita dalla rabbia.

«Peter Lime, che piacere» disse Lola, in danese. «Certo che ne sono passati di anni.»

«Taci, non sono qui per parlare con te» dissi.

«I soliti modi sgarbati» ribatté lei con la sua voce affettata. Nell’attimo in cui mi voltai per guardarla, Oscar alzò il bastone e mi colpì con violenza all’altezza del ginocchio: un dolore lancinante mi fece urlare e piegare in avanti e la mazza tornò a colpirmi, questa volta sulla schiena. Oscar aveva mirato alla nuca, ma Lola gli aveva dato una spinta salvandomi la vita. Il dolore era intollerabile. Cercai di rimettermi in piedi mentre Oscar si girava furioso verso Lola per colpirla in pieno viso con la mazza di ferro.

«Sjuganov!» gridai rialzandomi, e, zoppicando, mi mossi per andarlo a cercare. Oscar guardò Lola, che distesa su un fianco tingeva la neve di rosso, poi guardò me. I suoi occhi erano furiosi e vacui.

«Sjuganov!» gridai di nuovo. Ma ad apparire fu l’irlandese. La faccia insanguinata e feroce era quella di un assassino. Impugnava una pistola.

Le cose si mettevano male. Mi lanciai giù per il bosco come potevo, zoppicando e cadendo, poi rialzandomi, mentre nell’aria echeggiava uno sparo, poi un altro seguito da un sibilo a pochi metri da me.

«Resta qui, Lime!» Era la voce di Oscar, stavolta in spagnolo. «Non ti muovere, brutto stronzo. Non ho ancora finito con te, vigliacco figlio di puttana. È colpa tua se mi trovo in questo buco. Mi hai rovinato la vita bastardo fottuto. Torna qui! Jack, get him. But don’t kill the motherfucker! »

Mi allontanai arrancando più in fretta che potevo, la paura più forte del dolore. Aveva cominciato a nevicare e il vento soffiava gelido contro la mia faccia. Ma dove cazzo erano finiti Sjuganov e Igor? Sentii altri due spari, non ero in grado di dire a quale distanza. Mi ritrovai su uno stretto sentiero dove la neve era più compatta. Dopo una curva mi fermai, mi sfilai i guanti e mi appiattii contro un albero. L’irlandese si avvicinava di corsa. Aveva la guancia insanguinata, ma non riuscivo a vedere nessuna ferita. Forse il sangue non era suo? Correva un po’ goffamente, la pistola nella destra. Balzai in avanti, feci un giro su me stesso e cercai di colpirlo in viso. Il ginocchio dolorante mi fece vacillare un po’ e lui, che era abituato alla lotta, abbassò la testa da un lato. Lo colpii alla spalla, e la pistola gli cadde di mano sparendo nella neve. Ritrovò subito l’equilibrio, e si mise in posizione di combattimento, con le braccia mobili in avanti e le ginocchia leggermente flesse e scattanti. Sbuffò:

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