«Bene» dissi.
Sjuganov si sporse verso di me.
«E quando lo avremo trovato? Cosa dobbiamo fare?»
«Avrò bisogno di un interprete. Non conosco il russo.»
«Di solito c’è un motivo per cui una persona si nasconde e un’altra vuole trovarla. Quindi, che cosa vuole che facciamo una volta trovato il bersaglio? Un intervento diretto richiede una trattativa a parte. Se capisce quello che voglio dire.»
Avevo capito.
«No» dissi. «Lei dovrà solo portarmi da lui, al resto penserò io.»
«E se il bersaglio è armato? Oppure potrebbe essere protetto, avere dei complici.»
Riflettei un momento, quindi dissi:
«Se avrò bisogno di qualcuno che mi protegga, vorrei poter contare sulla vostra assistenza.»
«Nessun problema» disse alzandosi e tendendomi la mano. «So che lei paga i suoi debiti, perciò…»
«Perciò affare fatto» conclusi.
«È stato un piacere incontrarla Mr. Lime, e buon ritorno a Madrid. Ci vediamo a Mosca» disse e sparì tra la folla. Un elegante uomo d’affari in mezzo a tanti altri.
La mia ultima visita in Russia risaliva al tempo in cui il paese era ancora una delle quindici repubbliche socialiste della defunta Unione Sovietica. Come la DDR, l’Unione Sovietica era stata cancellata dalle carte geografiche non con la violenza e il sangue, ma con una firma che tre presidenti mezzi ubriachi in un capanno da caccia a Minsk avevano apposto su un foglio.
Vista dal cielo mentre l’aereo penetrava le fitte nuvole e iniziava l’atterraggio nell’aeroporto di Sjermentova, la Russia era identica a come la ricordavo: cosparsa di neve da cui spuntavano piccoli villaggi, il fumo che saliva dai comignoli l’unico segno di vita percepibile. Un paesaggio piatto ed eterno, interrotto solo dalle sagome dei laghi e dai fiumi ghiacciati.
Già all’aeroporto, il nuovo si mescolava al vecchio. Lunghe code si snodavano al controllo passaporto e bagagli, ma il terminal era pieno di pubblicità e di promesse di favolose vincite al casinò. I poster pubblicitari reclamizzavano marche di computer e telefoni cellulari. Ovunque c’erano montagne di bagagli. La gracchiante voce femminile diffusa dagli altoparlanti pareva la stessa di sempre. I russi che tornavano a casa, mescolati agli uomini d’affari e ai turisti, erano vestiti meglio di quanto ricordassi.
Sergej Sjuganov aveva mantenuto la parola chiamandomi dopo dieci giorni. Il bersaglio era stato individuato, c’era una stanza prenotata a mio nome all’Hotel Intourist, sulla Piazza Rossa. L’albergo era di categoria inferiore rispetto a quelli in cui alloggiavo normalmente, ma era più anonimo del restaurato Metropol o del National. Sjuganov sperava nella mia comprensione. Mi aveva dato un numero di fax pregandomi di comunicare la data e l’ora esatta del mio arrivo. Mi sarebbero venuti a prendere all’aeroporto.
Prima di partire avevo telefonato a Gloria per informarla. Aveva dichiarato di voler venire anche lei, ma le avevo detto che era meglio di no, e si era lasciata convincere senza tante storie. Era comprensibile che in realtà non avesse voglia di ritrovarsi faccia a faccia con Oscar. Preferiva portare a termine la separazione definitiva da lui barricata dietro articoli di legge e fredde citazioni in giudizio. La causa procedeva secondo le previsioni, mi aveva detto. I conti erano stati chiusi. L’agenzia andava avanti. Mi aveva chiesto di rientrare come socio, e questa volta non avevo risposto subito di no. Ma in cuor mio sapevo di non volerlo fare. Mi era divenuto chiaro a bordo dell’aereo, mentre pensavo a Clara e alla possibilità di iniziare una nuova vita insieme a lei.
Uscii nella sala arrivi, e tra la folla scorsi un giovanotto di ventotto, ventinove anni, con indosso un giubbotto di pelle. Reggeva un cartello con il mio nome. Era ben rasato e aveva l’aria di passare metà della sua vita in palestra.
Mi salutò, prese la mia borsa e con la testa mi fece segno di seguirlo. La sua Mercedes nera era parcheggiata davanti all’ingresso. Il freddo mi colpì come una martellata. Indossavo dei jeans e il mio giubbotto di pelle sopra a un maglione pesante. Era un freddo secco, l’aria sapeva di benzina. Le macchine sostavano in folle e i gas di scarico turbinavano nel vento leggero. Il giovanotto mi tenne aperto lo sportello e presi posto sul sedile posteriore, al caldo dell’abitacolo. C’era anche un autista; quello che mi aveva accolto si sedette accanto a lui, e l’auto si staccò quasi senza far rumore dal bordo del marciapiede. Il palestrato digitò un numero sul. cellulare e disse un’unica frase in russo. Sjuganov si faceva pagare profumatamente, ma il servizio era inappuntabile.
Ci dirigemmo a velocità sostenuta verso la città. Il fondo stradale sconnesso faceva vibrare la macchina. Il traffico restò scorrevole finché non arrivammo in prossimità del centro, dove ci ritrovammo ad avanzare a passo d’uomo. Diverse strade avevano cambiato nome. Molti negozi nuovi e illuminati esponevano decorazioni e alberi di Natale finti. La città era un grande compromesso fra la vecchia pesantezza sovietica e le seduzioni della modernità occidentale. La neve era ammucchiata in cumuli lungo il marciapiede, ma la carreggiata era sgombra. Nella luce dei fari dell’automobile turbinava qualche raro fiocco di neve. Finalmente davanti a noi apparve la sagoma del Cremlino, e poco dopo arrivammo all’Hotel Intourist, un grosso grattacielo quadrato di cemento ai margini della Piazza della Rivoluzione. Un tempo quella zona era aperta al traffico, ma adesso sembrava un parco pullulante di pedoni.
«Hanno fatto un centro commerciale, Mr. Lime. Otto piani sotto terra» spiegò il giovanotto dell’areoporto in un inglese dall’accento marcato. «Mi chiamo Igor» aggiunse.
«Piacere, Igor» dissi.
Scendemmo ed entrammo nella lobby brulicante di persone.
«I documenti, prego» disse Igor. Gli porsi il passaporto e il visto. Si avvicinò alla reception e si rivolse a due impiegate immerse in una fitta conversazione. Quelle lo ignorarono, e lui parlò di nuovo in tono più duro. Subito una delle due allungò la mano per prendere i miei documenti, mentre l’altra consegnava la chiave elettronica a Igor con un sorriso di scusa.
Salimmo al diciannovesimo piano e percorremmo un lungo corridoio, Igor bussò a una porta, e si fece da parte per cedermi il passo. Era una bella suite con tanto di tavolo per riunioni. L’arredamento era nuovo, nei toni rossi e marroni già preferiti dall’Unione Sovietica. C’erano un minibar, un televisore e un cartello che informava che l’albergo era dotato di telefono satellitare. E c’era Sergej Sjuganov.
Indossava il suo abito impeccabile. Mi tese la mano.
«Benvenuto a Mosca, Mr. Lime. Si serva da bere e poi ci mettiamo al lavoro. Sicuramente lei è un uomo impegnato quanto me.»
«Indubbiamente» risposi. Feci per aprire il minibar, ma Sjuganov scosse la testa e mi indicò la bottiglia di vodka posata su un tavolino. Riempì due bicchierini e mi tese il mio.
«Alla riuscita dell’operazione» disse e bevve tutto d’un fiato; io lo imitai.
Igor, probabilmente uno dei gorilla di Sjuganov, era seduto su una sedia accanto alla porta.
«Guardi qui» disse Sjuganov. Sul tavolo ovale al centro della stanza erano posate alcune foto e una cartina di Mosca e dintorni.
Le foto ritraevano Oscar insieme a una donna che riconobbi essere Lola, anche se si era tinta i capelli di nero. C’erano foto di Oscar da solo, di Lola da sola, di Oscar e Lola insieme. Dalle stampe sgranate capii che le immagini erano state scattate con il teleobbiettivo, alcune con un mille, altre con un quattrocento. L’ambientazione era un mercato dove piccole donne grassocce avvolte in cappotti informi e con i fazzoletti in testa sedevano tra pile di frutta e verdura. Un’altra serie di foto li ritraeva davanti a una grande casa rossa immersa in un bosco di betulle, dove una spessa coltre di neve ammantava i rami e il terreno. C’era un aggeggio nero montato sul muro che circondava tutta la casa: probabilmente una telecamera. Con un brivido, in una delle foto riconobbi il grosso irlandese con il manganello della casa di San Sebastián. In un’altra immagine Oscar e Lola sembravano immersi in un’animata discussione. L’irlandese li guardava, sotto il suo cappotto sbottonato si intravedeva una fondina da spalla. Lola era uguale a come l’avevo vista nelle immagini televisive a Copenaghen, mentre Oscar aveva un’aria devastata, furiosa.
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