Leif Davidsen - Quando il ghiaccio si scioglie

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Quando il ghiaccio si scioglie: краткое содержание, описание и аннотация

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Peter Lime, danese, professione fotografo, è felicemente sposato e dirige una fiorente agenzia. Durante un appostamento per un servizio scandalistico, scatta di nascosto una serie di foto compromettenti a un ministro del governo spagnolo impegnato in calde effusioni con una giovane starlette televisiva. E’ l’inizio di un’allucinante spirale di misteri e violenza che lo risucchia senza possibilità di scampo. La chiave è forse nascosta in un’altra immagine, scattata vent’anni prima e nell’identità misteriosa della donna che vi è ritratta.

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«Esigo che mi si permetta di telefonare a mia moglie e al mio avvocato.» Avevo la bocca secca e le palme delle mani madide di sudore.

Il giudice istruttore si voltò verso la stenografa, che aveva l’aria di trovare la seduta di una noia mortale.

«Si metta a verbale. Ai sensi dell’articolo 189, comma 4 del codice penale, l’indagato viene trattenuto in isolamento per tre giorni a partire da questo momento. La polizia giudiziaria provvederà a informare della detenzione la coniuge dell’indagato. L’indagato potrà conferire con il suo avvocato per due ore prima della prossima udienza, fissata di qui a tre giorni, alle ore cinque pomeridiane. Fino all’incontro con l’avvocato, l’indagato non può ricevere visite; ha diritto a mezz’ora quotidiana di moto all’aria aperta.» L’interrogatorio era terminato e fui ricondotto in cella. Ero sconvolto, pieno di rabbia. Eppure mi ero trattenuto a stento dal ringraziare il giudice per aver disposto che la polizia avvisasse mia moglie. Amelia avrebbe senz’altro avvertito Oscar e Gloria.

Era trascorsa una mezz’ora dal mio rientro in cella, quando il secondino grasso arrivò con una ciotola di zuppa di verdure calda, due fette di pane fresco, un pezzo di pollo con patate arrosto e acqua minerale. Da parte sua, aveva l’aria di preferire cibi ben più ricchi e pesanti. Gli occhi parevano piccolissimi persi in quel faccione cui la carne in eccesso conferiva l’espressione di un bambino che avesse subito un torto.

In realtà non avevo fame. Al cibo avrei preferito un bagno, però mangiai lo stesso. Avevo voglia di una sigaretta, ma mi avevano preso anche quelle, insieme all’accendino, alle chiavi e al portafoglio. Il secondino tornò a ritirare i piatti di plastica grigia e a consegnarmi una saponetta, uno spazzolino da denti, un tubetto di dentifricio, un piccolo asciugamano e una Bibbia. Gettò una ruvida coperta supplementare sul tavolaccio. Tutto faceva pensare che fosse ora di andare a letto per il detenuto speciale Lime. Gli chiesi del tabacco, ma quello non si scomodò a rispondermi.

«Buona notte» dissi alla sua schiena, e di nuovo non ci fu risposta. La cella era quasi completamente insonorizzata. Non potevo udire il suono dei passi del ciccione che si allontanava lungo il corridoio, nessun rumore dalle celle attigue o dalla strada. Quel silenzio era un fatto unico per Madrid, sempre chiassosa e mai del tutto addormentata. Percepivo solo il ritmico pulsare del sangue nella mia testa e il ronzio di un tubo nel muro. Mi servii del fetido buco nell’angolo, mi lavai il viso e i denti e mi distesi sul tavolaccio. Dormii poco e malissimo, la luce era accesa e tutta quella quiete amplificava la mia inquietudine. Erano trascorse poche ore dal mio arresto e già la lontananza della mia famiglia e del resto dell’umanità mi dava i crampi allo stomaco. Gli uomini del ministro sapevano il fatto loro. Tre giorni lì dentro e sarei stato disposto a confessare qualunque cosa. O quasi. Disteso sulla schiena mi sforzai di tener viva la fiammella della rabbia. Volevo coltivare l’aggressività e il rancore che mi avrebbero spinto a lottare. Rimasi sveglio per un tempo che mi parve lunghissimo nell’immobilità insopportabile del tempo, dove i pensieri si rincorrevano sconnessi e ogni battito irregolare del cuore mi faceva sussultare.

Infine dovetti assopirmi, perché mi svegliai di soprassalto quando la porta della cella si aprì. Erano i due tipi di Llanca, il piccoletto fifone e il gorilla palestrato. Quello grosso mi lanciò un’occhiata feroce, segno forse che il braccio e la spalla gli facevano ancora male. Il piccoletto ebbe un mezzo sorriso. Erano entrambi in giacca e cravatta nonostante fossero quasi le quattro del mattino. Se si erano presentati a quell’ora con l’idea di cogliermi in un momento di confusione e vulnerabilità avevano fatto male i loro calcoli: avevano l’aria di essere ben più stravolti di quanto non mi sentissi io.

Il grosso si appoggiò alla porta in modo da coprire lo spioncino. Come durante il nostro primo incontro, il suo atteggiamento minaccioso era contraddetto dal nervosismo che gli serpeggiava in volto. Notai un buffo tic che cercava di dissimulare toccandosi prima il mento poi la narice destra. Il piccoletto era in piedi contro il muro.

Mi rizzai a sedere e mi preparai a incassare le botte che credevo fossero venuti a darmi.

Invece, il piccoletto mi lanciò un pacchetto di Chesterfield e un accendino. Accesi una sigaretta e aspirai forte mentre registravo un breve, piacevole senso di vertigine.

«Calvo Carrillo» si presentò quello della sigaretta. «Il mio collega si chiama Santiago Sotello. Stia tranquillo, non c’è motivo di spaventarsi.» La mia aria assorta doveva essergli parsa, forse non a torto, un tentativo di dissimulare paura anche a me stesso.

«Che ne dice di parlare un po’ d’affari, Pedro? Potremmo riuscire a risolvere questa faccenda in modo civile. In fondo siamo uomini adulti. Siamo abituati a muoverci nel mondo e non abbiamo tempo da perdere.»

Continuai a fumare senza aprir bocca, limitandomi a contemplare i suoi strani occhi smorti, simili a quelli di un bambolotto.

Calvo Carrillo continuò:

«Questa storia può diventare seria…»

«Non avete elementi per accusarmi» ribattei.

«Ma potremmo causarle parecchi fastidi. Forse fra un paio di giorni uscirà. Ma potrebbe finire dentro di nuovo. Ogni volta che ci sarà un omicidio di matrice terroristica, tornerà qui per un bell’interrogatorio. Ci aveva pensato?»

Annuii. Sapevo benissimo che diceva la verità. Erano nella posizione di rendermi la vita molto difficile. Quasi mi leggesse nel pensiero, riprese a elencare le possibili vessazioni che uno stato forte e moderno poteva legittimamente infliggere ai suoi cittadini, o, meglio ancora, ai suoi non-cittadini, come nel mio caso.

Fece un passo avanti.

«Lei è uno straniero nel nostro paese, ma ha imparato la nostra lingua, conosce e apprezza la nostra cultura. La Spagna le piace, non è vero? E se improvvisamente non le riuscisse di ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno? Saremmo costretti a ritirarle anche il permesso di lavoro. Poi c’è il fisco. Anche quello può essere fonte di parecchie grane: ispezioni, revisioni, perquisizioni, controlli incrociati. Capisce ciò che sto cercando di dirle?»

«Chissà, la Chiesa potrebbe decidere di scomunicarmi…»

Carrillo sorrise. Il gorilla sembrava indignato dalla mia tracotanza. Aveva in mano un tubo di gomma sicuramente imbottito di ferro, e prese a batterselo ritmicamente contro la coscia: era pronto a usarlo, se non mi fossi mostrato ragionevole. Evidentemente i miei due amici avevano fretta.

«No. Non credo che la Chiesa possa fare granché, ma le indagini potrebbero estendersi anche a familiari e amici» disse senza ironia.

«Lasciate mia moglie fuori da questa storia.»

«Una volta messa in moto, la macchina cammina.»

«Però la si può fermare, no?»

«Sì, certo.»

«E chi mi garantisce che dopo non torni a mettersi in moto?» domandai.

Mi guardò con espressione sollevata. Avevamo aperto una trattativa. Da buon tirapiedi di un esperto uomo politico, preferiva compromessi e ricatti alla violenza esplicita.

«Vogliamo i negativi e le foto. Anche se non avremo mai la garanzia che lei non ne abbia nascosto qualcuno.»

«Infatti.»

«Ma non importa. Capisco che in una società moderna è importante avere una polizza d’assicurazione che copra gli imprevisti.»

«Lei è una persona intelligente» dissi.

Non afferrò la nota di sarcasmo nella mia voce, oppure preferì far finta di nulla. Sapevo già che avrei accettato la proposta. In fondo che significava tutta quella storia per me? Significava che avrei dovuto ingoiare un po’ d’orgoglio, tutto qui. Le foto che mi avevano cacciato in quel pasticcio non erano opere d’arte, ma immagini nate per stuzzicare la curiosità e la fame di pettegolezzi della gente.

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