Leif Davidsen - Quando il ghiaccio si scioglie

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Quando il ghiaccio si scioglie: краткое содержание, описание и аннотация

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Peter Lime, danese, professione fotografo, è felicemente sposato e dirige una fiorente agenzia. Durante un appostamento per un servizio scandalistico, scatta di nascosto una serie di foto compromettenti a un ministro del governo spagnolo impegnato in calde effusioni con una giovane starlette televisiva. E’ l’inizio di un’allucinante spirale di misteri e violenza che lo risucchia senza possibilità di scampo. La chiave è forse nascosta in un’altra immagine, scattata vent’anni prima e nell’identità misteriosa della donna che vi è ritratta.

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Io e Don Alfonso nutrivamo opinioni discordanti su molte cose, ma potevamo contare sulla fiducia e il rispetto reciproco.

Perciò presi uno dei negativi più espliciti del ministro e la sua pupa, lo contrassegnai con data e luogo dello scatto e lo misi in una busta che indirizzai a me stesso. Infilai la busta in una più grande insieme a due righe di saluto per Don Alfonso.

Controllai la mia casella e-mail e risposi a diversi messaggi di collaboratori che mi informavano su possibili “colpi”. Notizie e voci sui luoghi in cui i vip della terra si preparavano a trascorrere le vacanze. Per il momento non avevo intenzione di lanciarmi in una nuova impresa, ma ringraziai ugualmente le mie fonti e trasferii mille dollari sul conto di un informatore particolarmente abile e zelante.

La diva del teatro arrivò in ritardo, insieme alla sua sarta di scena. Mentre scattavo, inanellò tenera e allegra storie di amori vecchi e nuovi, pettegolezzi dell’ambiente e aneddoti piccanti. Era ancora molto attraente, e un talento palpabile nell’abilità di controllare i più piccoli muscoli del viso. Voleva apparire ringiovanita di vent’anni, bella di una bellezza misteriosa simile a quella della Gioconda. Se la foto le fosse piaciuta, avrebbe preteso che il teatro la utilizzasse per la promozione. Ormai la foto a fini promozionali era un fatto cruciale non solo per la gente di spettacolo ma anche per gli scrittori, categoria che infatti mi capitava di ritrarre sempre più spesso. Il successo di un romanzo sembrava dipendere più dall’avvenenza dell’autore che dal suo talento, l’immagine era tutto, il contenuto un optional.

Al termine dello shooting trascorsi qualche ora in camera oscura a lavorare sul ritratto dell’attrice. Non ero del tutto soddisfatto del risultato, e decisi che le avrei chiesto di tornare a posare un’altra volta.

A prescindere dalla qualità delle foto, la camera oscura per me era un rifugio, un luogo di felicità. Il mondo circostante spariva. C’ero solo io, io e le mie immagini che affioravano nella luce rossa per effetto di processi chimici da me sapientemente e creativamente controllati. Uscito dalla camera oscura mangiai un panino veloce e mi apprestai a uscire. Era ora di andare in palestra. Erano vent’anni che facevo karate e i proprietari giapponesi della scuola erano miei vecchi amici. Il karate mi aiutava a scaricare le tensioni e a tenermi in forma. Ma soprattutto apprezzavo le conversazioni con Suzuki, il vecchio maestro, la sua capacità di guardare il mondo dall’alto e mettere tutto in prospettiva.

Oscar non condivideva il mio amore per le arti marziali. In compenso aveva recentemente scoperto il golf e vi si era buttato con tutto l’entusiasmo un po’ ossessivo dei cinquantenni inquieti, sempre a caccia di nuove, totalizzanti passioni. Era troppo alto per sperare di poter eccellere in quello sport, ma ci dava dentro quasi fosse una questione di vita o di morte. Mi aveva convinto a cimentarmi diverse volte, ma l’esperienza mi aveva lasciato freddino.

Uscii dal portone. L’aria calda dell’estate madrilena mi colpì come uno schiaffo mentre gli odori e i suoni della città mi avvolgevano. Passai davanti al caffè Viva Madrid e percorsi i pochi metri fino a Calle Echégaray. Lasciai cadere la busta con il negativo in una buca delle lettere e proseguii soddisfatto. Bettole e pensioncine punteggiavano la calle. Il marciapiede era talmente stretto da costringere i passanti ad addossarsi ai muri delle case al passaggio delle automobili. Da giovane avevo abitato per un periodo alla pensione Las Once, di fronte all’Hotel Inglés e alla scuola di karate. Quest’ultima aveva aperto lo stesso anno in cui mi ero trasferito nella piccola stanza della pensione gestita dal Señor Alberto e dalla sua Señora. Rosa, la cameriera trentenne e probabilmente vergine, era analfabeta e incredibilmente arcigna. Aveva lineamenti forti, un po’ rozzi, il corpo corto e pienotto perennemente fasciato da un grembiule rosa. Faceva le pulizie e preparava da mangiare insieme alla Señora. Rosa era nata in un piccolo villaggio della Galizia, da una famiglia numerosa di contadini. Tutte le mattine il padre e gli altri uomini della casa andavano in piazza nella speranza che il fattore del proprietario terriero offrisse loro una giornata di lavoro. La miseria allora era diffusa e il divario fra le classi sociali spaventoso. Sapevo che Rosa era stata mandata a servizio a sette anni, anche se non ero riuscito a scoprire come fosse approdata alla Pension Las Once di Madrid. Ogni sera la Señora prendeva il giornale «ABC» e cercava di insegnarle a leggere. La sera in cui Rosa era riuscita a leggere da sola i titoli, il vecchio Señor Alberto era andato a prendere una bottiglia di sherry che conservava da più di venticinque anni e avevamo festeggiato.

Camminavo assorto nei miei pensieri, circondato dalla vita e dai rumori rassicuranti della città, quando all’improvviso due uomini mi sbarrarono il passo. Erano entrambi alti, sui trentacinque anni e indossavano abiti di buon taglio.

«Señor Lime?» domandò uno.

Rimasi in silenzio qualche istante.

«È in arresto» mi informò l’altro, mentre il primo si portò alle mie spalle, mi afferrò le braccia e con gesto fulmineo fece scattare le manette attorno ai miei polsi. Protestai e ripetei che esigevo spiegazioni ma quelli rimasero in silenzio.

4

Diversi isolati ci separavano dal vecchio, massiccio edificio rosso che ospitava la sede centrale dei servizi segreti e della polizia di Puerta del Sol. I due agenti sequestrarono il cellulare e la piccola Leica che portavo sempre con me e mi fecero salire sul sedile posteriore di una grossa Seat bianca, stretto tra altri due agenti in borghese. L’autista mise in moto senza una parola. Come gli altri due portava i capelli tagliati cortissimi, alla maniera dei soldati. “Maledetto ministro” pensai.

La stessa situazione qualche decennio prima, quando i poliziotti spagnoli erano notoriamente inclini a estorcere confessioni a suon di botte, mi avrebbe gettato nel panico. Ma quei tempi bui erano ormai lontani, anche se i baschi sostenevano che la polizia spagnola non avesse perso le sue cattive abitudini. Domandai quale fosse la causa del mio arresto, ma di nuovo non ottenni risposta. Le manette mi stringevano i polsi e avevo il respiro accelerato. Oltre il finestrino la ricca, anarchica vita madrilena scorreva indisturbata, aumentando il mio senso di impotenza e di oppressione.

Il traffico era sempre più difficoltoso e procedevamo a sirene spente, così finimmo per rimanere imbottigliati. Ma se anche ci fosse stato lì attorno qualcuno che conoscevo, i finestrini fumé gli avrebbero impedito di vedermi. Dissi che volevo telefonare al mio avvocato. Nessuno replicò. Sapevo dell’esistenza di un articolo della legge antiterrorismo che avrebbe consentito loro di trattenermi per quarantotto, forse addirittura settantadue ore anche in assenza di qualunque specifico capo d’imputazione a mio carico. Di nuovo maledissi tra me il ministro e quelle fottutissime foto. Evidentemente quel porco era disposto a darsi un bel da fare per impedire che la sua felicità familiare e la sua carriera venissero distrutte da un qualsiasi Peter Lime. A Puerta del Sol la Seat girò a sinistra costeggiando la centrale di polizia, superò due guardie armate di mitragliatrice ingoffite dai giubbotti antiproiettile ed entrò nel cortile. Mi fecero scendere e attraversai il cortile fino a una bassa porta secondaria. Percorremmo un corridoio scuro, scendemmo una rampa di scale, poi un altro lungo corridoio fino a una stanza piuttosto grande al cui centro campeggiava una vecchia scrivania. Vi era seduta una guardia in uniforme grigia. Sul ripiano scheggiato e coperto di macchie era aperto un giornale sportivo con accanto una tazzina da caffè vuota. Al nostro ingresso la guardia si alzò per precederci lungo un ennesimo corridoio illuminato da potenti lampadine protette da gabbiette metalliche. Su entrambi i lati, a distanze regolari, si aprivano le porte dipinte di azzurro delle celle. La guardia si fermò davanti alla quarta porta e l’aprì. Con un gesto brusco, uno dei due agenti alle mie spalle mi tolse le manette. Stavo per protestare, quando lo stesso agente mi afferrò per il codino e tirò con forza, quindi mi scaraventò dentro la cella con una potente spinta tra le scapole.

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