Leif Davidsen - Quando il ghiaccio si scioglie
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- Название:Quando il ghiaccio si scioglie
- Автор:
- Издательство:Piemme
- Жанр:
- Год:2001
- Город:Miano
- ISBN:88-384-5149-4
- Рейтинг книги:4 / 5. Голосов: 1
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Oscar prese le foto e si sedette al tavolo bianco che occupava il centro della stanza. Qui offrivo il caffè ai miei contatti di lavoro, o ai clienti che posavano per me quando mi dedicavo all’altra faccia del mio mestiere, i ritratti. Ritraevo, sia celebrità disposte a pagarmi un capitale, sia persone qualunque i cui volti mi affascinavano per strada, in un caffè o in una sala d’aspetto.
Oscar mi guardò:
«Valgono di più di quanto immagini» mi disse.
«È ministro da troppo poco tempo per essere noto al di fuori dei confini spagnoli» replicai scettico.
Oscar sfoderò il suo sorriso da lupo.
«Peter, non mi dire che non l’hai riconosciuta!»
Rimasi in attesa. Oscar leggeva riviste illustrate in diciassette lingue, faceva parte del suo lavoro. Studiava il jetset del globo con la stessa serietà e precisione con cui un bravo speculatore di borsa studia le quotazioni. Per giocare d’anticipo sul mercato, il dio indiscusso dei nostri tempi. Per sapere chi “tirava” e quanto valeva.
«Un indizio: è italiana.»
Raccolsi una delle foto. Il bel viso dai lineamenti regolari aveva qualcosa di familiare, e allo stesso tempo assomigliava a mille altri giovani volti di donna, la bocca piccola e carnosa e i grandi occhi leggermente a mandorla. Provai a immaginarmela truccata, ma prima che mi avventurassi a sparare un nome, Oscar annunciò:
«È Arianna Facetti».
Tornai a osservare la foto. Aveva ragione. Era proprio la giovane promessa del cinema italiano. Per un soffio non aveva ricevuto un premio all’ultimo Festival di Cannes. Per il momento non era ancora una star del cinema internazionale, ma il suo passato di scollacciata animatrice di un popolare quiz televisivo la rendeva una preda decisamente appetibile per noi paparazzi.
«Hai ragione» dissi. «Dove si saranno conosciuti?»
«Il vecchio ha interessi in un canale televisivo. E poi i soldi gli escono dalle mutande. Avrà notato la sua foto in qualche rotocalco e avrà spedito il suo aereo personale a prelevarla. Gran bella ragazza. Adesso diventerà ancora più famosa. Lui ci rimetterà la carriera, mentre le quotazioni di lei saliranno non appena le tue foto appariranno sulla stampa italiana e spagnola. Pensi che dovremmo concederle in esclusiva?»
«Vuoi una birra? Un caffè?» gli chiesi.
«Coca Cola.»
Presi due lattine di Coca dal frigo e le appoggiai sul tavolo. Oscar mi guardò.
«Che c’è, Peter, qualcosa non va?»
«Forse faremmo meglio a lasciar perdere.»
«Queste foto ci frutteranno un mucchio di soldi. Che ti prende?»
Gli raccontai l’incidente del cellulare, la mia frettolosa ritirata dalla postazione sopra la caletta e infine l’incontro non proprio amichevole con le guardie del corpo del ministro.
«Dobbiamo parlare anche con Gloria di questa faccenda» disse quando terminai di parlare. «Ma non dovrebbero esserci ulteriori problemi. Non hai commesso nessun crimine perseguibile. Si trovavano su suolo pubblico. Il tuo nome non verrà fuori. Anche se i ben informati sanno perfettamente che quando l’Ospe vende foto scottanti il più delle volte sono firmate Lime.»
Annuii.
«Le mie esitazioni sono basate… più che altro su una sensazione» ammisi.
«Capisco. Chiederemo a Gloria di fiutare un po’ in giro.»
«Okay» dissi, solo parzialmente rassicurato. Avevo piena fiducia nelle capacità di valutazione di Gloria e di Oscar. Eppure non ero del tutto tranquillo.
«Aspettiamo un paio di giorni prima di muoverci» suggerì ancora Oscar, alzandosi per telefonare.
Chiamò Gloria per riferirle quanto gli avevo appena raccontato. Era in piedi accanto alla mia scrivania, e il suo sguardo si posò sulla foto di Lola recentemente riaffiorata dal passato. La prese in mano e la osservò mentre improvvisamente distratto rispondeva a Gloria nel suo spagnolo lento e dal forte accento tedesco.
«Alle quattro?» disse infine rivolto sia a me che al ricevitore.
Scossi la testa. Alle quattro avevo un appuntamento con i miei amici giapponesi della scuola di karate. Ne avevo bisogno: la bocca secca, il formicolio alle dita, i brividi lungo la schiena, il senso di vuoto allo stomaco. Tutti segnali di un’inquietudine che solo un’intensa sessione in palestra avrebbe potuto scacciare.
«Peter non può» disse Oscar. «Perché non adesso?» propose allora. Reggeva la foto di Lola con entrambe le mani, il ricevitore premuto sotto il mento.
Scossi di nuovo la testa. Di lì a mezz’ora avrei incontrato una diva cinquantaseienne del teatro reale spagnolo che aveva deciso di regalare al suo nuovo amante un proprio ritratto.
«Alle sei?» rilanciò Oscar. Finalmente annuii, e lui schioccò un bacio nella cornetta prima di riagganciare.
Dopo un ultimo sguardo al bel volto di Lola posò la foto. Oscar si girò e, sedendosi sul bordo del tavolo, si accese una sigaretta.
«Chi è la donna misteriosa?» chiese indicando la fotografia.
Il fatto che Oscar mi avesse rivolto quella domanda non mi stupì. Era curioso come una scimmia, anche per questo era così bravo nel suo lavoro.
«Non saprei» mentii. Non avevo voglia di raccontare.
«È una vecchia foto. Da dove salta fuori?» insistette lui.
Di mala voglia gli parlai di Clara Hoffmann.
«E allora, ce li hai i negativi oppure no?» chiese.
«Come mai t’interessa tanto? La conosci?»
«No. Però è molto bella. Misteriosamente, inafferrabilmente bella. È come se dicesse: io ho tanti segreti. Solo un uomo speciale può sperare di trovarne la chiave. Scoprirmi non è facile, ma il premio per chi ci riesce sarà grande.»
Risi. Oscar non si smentiva mai. Conquistava le donne spinto dal desiderio di conoscerle anima e corpo, e quando sentiva di aver raggiunto lo scopo invariabilmente subentrava la noia. Solo l’intelligenza, l’imprevedibilità e il sex appeal di Gloria erano riusciti a trattenere il suo interesse abbastanza a lungo da rendere una separazione troppo problematica.
«Allora? Hai ancora i negativi?» insistette.
Indicai gli armadi di acciaio allineati lungo una parete della stanza.
«Lo sai che non butto mai un negativo. Quella foto non mi dice niente, ma credo di averla da qualche parte. Magari su in soffitta.»
«Hai intenzione di cercarla?»
Gli rivolsi un’alzata di spalle.
«Ho cose più urgenti a cui pensare» risposi.
«Si vede subito che la foto è tua» disse. «C’è tutto. Stile, tensione, mistero, inquietudine. Già da giovane eri molto bravo.»
Ripose le foto del ministro e dell’attrice italiana in una busta, mi diede un buffetto sulla guancia e si avviò alla porta.
«A dopo» lo salutai.
Rimasto solo accesi il cellulare per controllare la segreteria. C’era un messaggio della Hoffmann che mi pregava di richiamarla. L’avrei fatto senz’altro, più tardi. Mi avvicinai agli armadi di acciaio. Là dentro, chiusi a chiave, riposavano innumerevoli pezzi della mia vita trascorsa. Aprii il primo armadio. I negativi erano sistemati in ordine cronologico, anno per anno. Per ogni serie di immagini avevo indicato la data e il soggetto. Ce n’erano a migliaia. I miei frequenti viaggi non mi avevano impedito di tenere un archivio accurato delle foto. Perfino nei periodi più caotici della mia esistenza, quando avevo avuto l’impressione di camminare sull’orlo di un abisso, conservare e ordinare il frutto del mio lavoro era rimasta una priorità. E adesso quei frammenti di tempo fissati in millesimi di secondo erano sistemati in bell’ordine negli armadi d’acciaio.
Non tutti, però.
La foto di Lola poteva far parte del mio archivio segreto, di cui perfino Oscar ignorava l’esistenza. Più ci pensavo più mi sembrava probabile che le cose stessero proprio così. Non solo ero sempre stato geloso dei miei negativi, ma consideravo le foto migliori e quelle più scottanti un’assicurazione sulla vita, l’equivalente di una pensione, oltre che una parte di me. Da giovane avevo preso l’abitudine di spedire alcuni, selezionati negativi ai miei genitori. Infilavo il negativo in una busta indirizzata a me stesso, e questa a sua volta in un’altra che spedivo ai miei genitori. I quali avevano istruzioni di conservare la lettera fino alla mia prossima visita in Danimarca, quando l’avrei aperta per riporne il contenuto in una valigia. Negli anni, diverse volte avevo sostituito la valigia con una sempre più capiente, fino ad arrivare all’attuale grossa Samsonite bianca con la serratura a combinazione. Vi custodivo il negativo della famosa foto di Jacqueline Kennedy, e di altre che mi avevano reso una fortuna. Ma anche quelli di paesaggi che mi avevano emozionato particolarmente, e le foto scattate con la mia prima Leica. Un’immagine turistica piuttosto banale della Piazza Rossa di Mosca nel 1980 era custodita insieme al ritratto di un’antica fidanzata. C’erano negativi di foto scattate in Iran, India, Danimarca, tracce del mio progetto di immortalare tutti i locali frequentati da Hemingway. Le prime foto di Amelia e Maria Luisa subito dopo il parto. Ma c’erano anche le lettere d’amore di una vita, un paio di pagelle, qualche tema e i miei goffi tentativi di comporre poesie, schizzi, annotazioni e pensieri buttati giù in fretta. Quella valigia, insomma, era una sorta di diario e aveva sempre rappresentato un punto fermo nella mia esistenza. Alla morte dei miei genitori, l’avevo affidata a un avvocato incaricato di ricevere e conservare la mia posta. Poi, cinque anni prima, avevo consegnato la valigia al padre di Amelia, un ex agente segreto che aveva fatto della riservatezza una regola di vita.
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