Leif Davidsen - Quando il ghiaccio si scioglie

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Quando il ghiaccio si scioglie: краткое содержание, описание и аннотация

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Peter Lime, danese, professione fotografo, è felicemente sposato e dirige una fiorente agenzia. Durante un appostamento per un servizio scandalistico, scatta di nascosto una serie di foto compromettenti a un ministro del governo spagnolo impegnato in calde effusioni con una giovane starlette televisiva. E’ l’inizio di un’allucinante spirale di misteri e violenza che lo risucchia senza possibilità di scampo. La chiave è forse nascosta in un’altra immagine, scattata vent’anni prima e nell’identità misteriosa della donna che vi è ritratta.

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«Da questa parte» dissi guidando Clara Hoffmann verso la Cervecería Alemana, sul lato opposto della piazza. Portava un paio di scarpe comode senza tacco ed era alta quanto la mia spalla. Era avvolta da una nuvola di un profumo delicato, molto gradevole.

«Che bello qui» commentò mentre raggiungevamo l’ingresso del bar. Era affollato, ma per fortuna tre giovani si alzarono in piedi proprio mentre entravamo, liberando un tavolo accanto alla finestra. Come in tutti i bar spagnoli c’era molto chiasso. Dietro il bancone due barman indaffarati consegnavano caffè, tapas , birre e cocktails a una squadra di camerieri in giacca bianca e pantaloni neri. Una grossa testa di toro campeggiava su una delle pareti, le altre erano decorate da fotografie in bianco e nero di famosi toreri oppure di vecchi attori degli anni Quaranta e Cinquanta. La clientela era composta prevalentemente da giovani.

«Davvero carino» ripeté Clara Hoffmann con un sorriso.

«Già. Hemingway è stato uno dei suoi clienti più famosi.»

«Davvero?» disse con aria indifferente, prendendo una sigaretta dalla borsa.

«Non le piace?» domandai.

«Non ho letto più niente di suo dai tempi del liceo. Trovo che sia un po’, come dire, superato. »

Accostai la fiamma dell’accendino alla sua sigaretta.

«Non è d’accordo?» I suoi occhi mi parvero adesso quasi grigi.

«È uno dei miei scrittori preferiti» dissi scrutando il ripiano marmoreo del tavolo e poi fissando lo sguardo fuori della finestra. Il marciapiede pullulava di madrileni diretti all’aperitivo che di rito precedeva la cena, prevista solo per le undici.

«Dicono che questo fosse il suo tavolo abituale. Qui si sedeva a scrivere durante la guerra civile, mentre i fascisti bombardavano Madrid. Di solito quando veniva in città, alloggiava nel suo stesso albergo, il Victoria, insieme ai toreri famosi dell’epoca. Fino a qualche anno fa qui si potevano ancora incontrare dei camerieri che lo avevano conosciuto e che lo avevano accompagnato in albergo le mattine in cui era troppo ubriaco per tenersi in piedi.»

Lei si guardò intorno.

«Comunque, non è di Hemingway che voleva parlarmi» dissi.

«Propongo di darci del tu.» Annuii.

«Vuoi bere qualcosa? Un bicchiere di vino?»

«Sì, grazie» rispose liberando una boccata di fumo.

Feci un cenno a Felipe che accorse al nostro tavolo. Lavorava lì da decenni. Un tempo era stato un giovane e promettente torero, ma poi un toro lo aveva incornato e “aveva perso i coglioni”, come dicono gli spagnoli. Benché la ferita fosse guarita rapidamente, non aveva più osato mettere piede nell’arena. Era un uomo tarchiato, con gli occhi tristi e il naso rosso. Viveva da solo in una piccola pensione e ogni anno tornava a Ronda, dove era nato, per visitare l’arena in cui aveva debuttato. Che cosa ci andasse a fare, non lo so. Forse malediceva il toro e la sua cattiva sorte. Forse si accontentava di contemplare i suoi sogni infranti.

Accolse la mia ordinazione con il solito sorriso stanco: un bicchiere di vino rosso per la signora, un’acqua tonica per me, una porzione di gamberetti all’aglio e un piatto di prosciutto di montagna.

Felipe si allontanò e Clara Hoffmann cercò il mio sguardo.

«Ho un paio di domande da farti» disse.

«Solo così, per formalità,» la interruppi, «potrei vedere un documento?»

«Ma certo» rispose frugando nella borsa e porgendomi la carta d’identità. La foto era somigliante. Sicché aveva quarantatré anni.

«Vicecommissario. Complimenti!» dissi.

«Il mio capo, una donna, ha solo qualche anno più di me. Non sono un caso tanto straordinario…»

Era una mia impressione o aveva pronunciato l’ultima frase con una punta di rassegnazione? Quasi ritenesse di non doversi aspettare alcun ulteriore avanzamento. Le restituii il documento. Felipe ricomparve e posò sul tavolo il vino, la tonica e il cibo insieme allo scontrino. I gamberetti sfrigolavano ancora nell’olio e aglio. Il prosciutto stagionato e affumicato era tagliato a fettine sottili, disposte con cura sul piatto.

«È la prima volta che vieni in Spagna?»

«Sono stata a Mallorca, un secolo fa. Poi i miei interessi mi hanno portato… più a Est.»

«Hai dato la caccia alle spie russe?»

«Qualcosa del genere.»

Sorrise evasiva. Quando sorrideva gli occhi grigio azzurri si facevano incredibilmente vivi e luminosi. Assaggiò del prosciutto e subito tornò a servirsene.

«Mmm… Devo ricordarmi di portarmene un po’ a casa» disse.

«Già. È squisito.»

Spizzicammo in silenzio per qualche minuto. Poi Clara Hoffmann si sporse verso di me e assunse un’espressione professionale. Il livello del rumore all’interno del bar era alto. Stavo seduto con le spalle rivolte alla parete, in modo da tenere d’occhio la porta d’ingresso. Molti dei clienti abituali mi conoscevano, ma nessuno si fece avanti per salutarmi.

«Non ti tratterrò per molto. Ma se permetti, vorrei farti alcune domande…»

«Prego.»

«Al telefono, però, mi sei sembrato piuttosto indisponente.»

«Mi trovavo in una situazione… complicata» mi giustificai.

«Laila Petrova» disse scrutandomi in viso. «Il nome ti dice qualcosa?»

Scossi la testa. «Assolutamente niente. Chi è?»

«Quarantotto anni. Capelli castani, probabilmente tinti. Magra, altezza un metro e settantacinque, costituzione normale. Viso ovale dai tratti regolari, anche grazie a un paio di interventi chirurgici. Occhi azzurri o marroni, a seconda delle lenti a contatto. Elegante. Fotogenica. Si è laureata in storia dell’arte e si è sposata due volte. Ignoriamo il nome del primo marito. Il secondo era un pittore russo da cui si è separata dieci anni fa. Il cognome da ragazza sembra fosse Nielsen. Il pittore, ovviamente, si chiamava Petrov.»

«Non conosco nessuna che risponda a questa descrizione.»

«Leggi i giornali danesi?» domandò. Il suo sguardo si staccò da me per posarsi fuggevolmente sugli stuzzichini. Doveva aver fame, l’orologio del suo stomaco non era regolato sui ritmi spagnoli. Allungò la mano verso il piatto del prosciutto. All’anulare destro portava un anello con uno zaffiro, al sinistro niente.

«No, non li leggo» risposi. «Anche se di tanto in tanto mi capita sotto gli occhi qualche articolo. La mia agenzia vende foto in tutto il mondo. Così ci appoggiamo a un’agenzia specializzata in rassegne stampa, per essere informati su chi utilizza le nostre foto. Nel caso dimenticassero di pagare il copyright.»

«Capisco. Permetti?» Prese l’ultima fettina di prosciutto dal piatto, masticò con cura e bevve un sorso di vino.

«Tornando a Laila Petrova. Era… è direttrice di un prestigioso museo danese inaugurato di recente. È scomparsa, e con lei un bel mucchio di quattrini: quattro milioni e mezzo di corone di finanziamenti.»

«Sei venuta fin qui per raccontarmi la storia di una tizia scappata con la cassa? Non l’ho mai sentita nominare. Perché non me ne hai parlato al telefono? Avremmo evitato di sprecare tempo.»

«Già, ma non avrei potuto mostrarti questa» disse estraendo dalla borsa una cartellina. Aveva l’aria di contenere parecchi documenti, ma lei selezionò una foto in bianco e nero e me la porse scrutandomi, pronta a registrare ogni mia più piccola reazione. Era una foto d’agenzia formato 25x36, chiaramente una riproduzione, per quanto nitida. Ritraeva una giovane donna bionda e sorridente, gli occhi semichiusi fissi su un punto alla destra del fotografo. Mi pareva di averla già vista da qualche parte. Aveva lunghi capelli lisci sciolti sulle spalle e una frangia dritta che le sfiorava le sopracciglia. Quella pettinatura alla Marianne Faithful faceva pensare che la foto fosse stata scattata all’inizio degli anni Settanta, certamente d’estate. Indossava una camicia a fiori generosamente sbottonata e pantaloni a vita bassa, all’apparenza blue-jeans. Uno degli incisivi era un po’ storto, ma questo non faceva che aumentare il fascino del suo sorriso. Sullo sfondo si intravedevano le sagome di alcuni pescherecci. La ragazza stava suonando la chitarra. Nel margine di sinistra un uomo con la barba le rivolgeva un sorriso pieno di ammirazione.

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