Cercai con lo sguardo Amelia e Maria Luisa.
Scorsi per prima mia figlia, e una familiare sensazione di calore mi invase il corpo. Stava saltando alla corda con tutta l’accanita concentrazione dei suoi quasi sette anni. Somigliava più alla madre che a me, con quei capelli neri e la pelle olivastra, ma aveva i miei occhi azzurri e gambe e braccia lunghe come le mie. La faccia era tonda e dai tratti delicati, ma con la bocca grande facile alla risata. La corda le colpì la caviglia e bruscamente si arrestò, l’espressione delusa. Sebbene fosse impossibile, mi sembrò di distinguere la sua voce nella cacofonia di voci infantili. Maria Luisa era nata che Amelia aveva trentasei anni e i medici avevano annunciato che non avrebbe potuto avere altri bambini. Con il primo marito non ne aveva voluti. Non parlavamo molto di lui, ma mi aveva confessato di essersi pentita appena un mese dopo il matrimonio. Aveva retto tre anni, poi l’aveva lasciato e quando era stata approvata la legge sul divorzio avevano divorziato. Erano trascorsi degli anni, e quando la nostra relazione era nata e poi si era consolidata, fare un figlio si era rivelato più difficile del previsto. C’era voluto un anno di tentativi perché Amelia restasse incinta.
Seduta su una panchina, Amelia chiacchierava con l’inquilina del piano di sotto. Eravamo sposati da otto anni. Era magra e bella di una bellezza indefinibile. Non aveva lineamenti classici, regolari, ma il suo era un viso impossibile da dimenticare per chi l’avesse vista anche una sola volta. Era in pace con se stessa e credeva nella vita, per questo trovavo le rughe intorno ai suoi occhi e alla sua bocca così seducenti. Amelia amava ridere e aveva il dono della leggerezza.
Mi scorse mentre la raggiungevo e mi sorrise, alzandosi in piedi.
Salutai la vicina con i tre tradizionali bacetti all’altezza delle guance prima di abbracciare mia moglie e baciarla sulla bocca. Avevo ancora addosso la tensione di qualche ora prima e prolungai il bacio pur sapendo che Amelia non amava le effusioni in pubblico. Si ritrasse.
«Bentornato!» disse. «Com’è andata?»
«Benissimo» risposi.
«Dove sei stato, Pedro?» domandò la vicina.
«Catalogna.»
«Ah, i catalani. Quelli si rifiutano di parlare lo spagnolo: come te la sei cavata?» domandò con una risata.
«Non male, Maria» dissi.
Maria scriveva libri di cucina ed era sposata con un avvocato, aveva appena trentadue anni. In netta controtendenza rispetto alle scelte di una generazione di eterni adolescenti, aveva già tre figli, in quel momento impegnati a giocare lì in piazza. Maria era originaria dell’Andalusia e aveva conservato lo spagnolo rapido e smozzicato della sua terra, in cui tutte le esse si tramutano in dolci zeta.
Tornai a osservare mia figlia. Era di nuovo il suo turno di saltare.
«Questa volta le sei mancato molto» disse Amelia.
Maria Luisa a un tratto incontrò il mio sguardo e con un gridolino eccitato abbandonò corda e amiche per correre ad abbracciarmi.
La presi in braccio. Aspirai avido il suo buon profumo di pulito. Mi cinse il collo e tirò il codino che mi ero fatto crescere anni addietro, quando i capelli avevano cominciato a diradarsi. Probabilmente tradiva i sentimenti di rifiuto che nutrivo per la vecchiaia che si avvicinava, ma era il mio piccolo vezzo: mia figlia lo trovava divertente, e secondo Amelia mi donava.
Posai Maria Luisa a terra. Si era lanciata in un torrenziale resoconto delle avventure dell’ultima settimana e mi mostrava un ginocchio sbucciato rosso di tintura disinfettante. Mi sedetti sulla panchina accanto a mia moglie e la piccola mi si sistemò in grembo. Continuammo a chiacchierare finché le due bambine della Corale chiamarono Maria Luisa che con un balzo abbandonò le mie ginocchia e corse loro incontro.
« Bueno ,» disse Maria «devo salire a finire di preparare la cena. Juan rientrerà a momenti.»
«Lascia qui i bambini, li porto su io», si offrì Amelia, «noi ci fermiamo ancora un po’. Ho comprato delle bistecche.»
Maria salutò e si allontanò e Amelia si strinse a me.
«Allora, amore, racconta.»
Le feci il resoconto degli eventi della giornata. Mentre parlavo mi sfiorò il pensiero che non sapevo quale opinione avesse veramente Amelia del mio lavoro. Sospettavo che in fondo lo disprezzasse un po’, anche se non l’avrebbe mai ammesso per amor mio. Inoltre era grata del fatto che ci permettesse di vivere agiatamente.
«Ti aspetti qualche grana?» chiese.
«Non credo» risposi. «Ma se anche fosse, toccherà a Gloria e Oscar occuparsene.»
«Forse faresti meglio a non venderle.»
«Mia moglie che si schiera dalla parte di un ministro conservatore? Questa è buona!» esclamai.
Amelia rise.
«Per carità. Quelli si meritano ben di peggio. Sono preoccupata per te, tutto qui.»
«Sono grande e vaccinato» ribattei.
«Sì, ma…»
«Stai tranquilla.»
Raddrizzò la schiena.
«Ha telefonato una donna, una danese» disse. «Non parlava lo spagnolo, ma il suo inglese era ottimo. Ha detto che era della polizia…?»
«Dei servizi segreti. Mi ha chiamato sul cellulare. È scesa al Victoria.» Indicai il vecchio, bellissimo albergo dei toreri che s’ergeva all’altro capo della piazza, simile a una nave bianca e tranquilla nella luce precoce dei lampioni.
«Che cosa vuole?»
Mi accesi una sigaretta.
«Non ne ho la più pallida idea» ammisi.
«Ha detto che avrebbe richiamato.»
«Le parlerò.»
«Hai fame?» mi domandò Amelia. «Vuoi andare a cena fuori?»
«Non ho troppo appetito. Preferisco mangiare a casa. Diamo ai bambini altri dieci minuti.»
Restammo seduti abbracciati parlando di tutto e di niente come capita fra marito e moglie. Amelia faceva l’insegnante e lavorava in un istituto per bambini con problemi psichici. Era pagata malissimo, ma non ci avrebbe rinunciato nemmeno se avessero smesso di darle lo stipendio. Mi raccontò di un ragazzo che dopo molti sforzi era riuscito a leggere qualche riga del testo di un fumetto. Aveva quindici anni ed era un caso disperato, ma Amelia era entusiasta del fatto che tre anni di lavoro avessero portato a quel risultato. Io non avrei mai potuto fare il suo mestiere: non avrei retto nemmeno un’ora.
Una donna sui quarant’anni in tailleur azzurro e camicetta bianca si avvicinò alla nostra panchina. Portava un rossetto vermiglio e un tocco di ombretto scuro sulle palpebre. I capelli, pettinati all’indietro, le davano un’aria un po’ severa, ma l’espressione degli occhi azzurri era affabile.
«Peter Lime?» domandò.
Vidi che Amelia la studiava attentamente.
«Clara Hoffmann» disse la donna. Mi alzai per stringere l’esile mano che mi porgeva.
«Mia moglie» dissi in inglese. «Amelia, Clara Hoffmann. Di Copenaghen.»
Le due donne si scambiarono una stretta di mano. «Ci siamo parlate per telefono» disse Clara Hoffmann.
«Certamente. Ma al telefono non avevo afferrato il suo nome» disse Amelia nel suo inglese lento ma impeccabile.
«Mi perdoni l’invadenza» proseguì Clara Hoffmann rivolta a mia moglie. «Volevo fare una passeggiata con questa bella serata, poi ho visto suo marito qui seduto e allora…»
«Come ha fatto a riconoscermi?» chiesi.
«L’ho vista in diverse foto. Certo, era più giovane, ma non è cambiato molto.»
Amelia mi lanciò un’occhiata indecifrabile.
«È ora che porti su i bambini» annunciò. «Voi, invece, perché non andate alla Cervecería Alemana, dove potrete parlare in pace, e in danese?»
Era un’ottima idea. Me la sarei cavata in pochi minuti e poi sarei salito a cena. È più facile liberarsi di una persona dopo averle offerto da bere.
«Le va una birra?» dissi rivolto a Clara Hoffmann e quando lei annuì presi congedo da mia moglie con un bacio. Amelia raccolse la mia borsa da viaggio e chiamò a raccolta i bambini. Non si offrì di portare la tracolla perché sapeva perfettamente che non avrei accettato di separarmi dalle macchine.
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