Leif Davidsen - Quando il ghiaccio si scioglie

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Quando il ghiaccio si scioglie: краткое содержание, описание и аннотация

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Peter Lime, danese, professione fotografo, è felicemente sposato e dirige una fiorente agenzia. Durante un appostamento per un servizio scandalistico, scatta di nascosto una serie di foto compromettenti a un ministro del governo spagnolo impegnato in calde effusioni con una giovane starlette televisiva. E’ l’inizio di un’allucinante spirale di misteri e violenza che lo risucchia senza possibilità di scampo. La chiave è forse nascosta in un’altra immagine, scattata vent’anni prima e nell’identità misteriosa della donna che vi è ritratta.

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Chiamai il numero diretto di Oscar dal telefono dell’albergo. Rispose al primo squillo. All’inizio della nostra amicizia, Oscar e io comunicavamo solo in inglese. Anche se da tempo entrambi avevamo imparato a padroneggiare perfettamente lo spagnolo, spesso ci capitava ancora di preferire l’inglese nelle nostre conversazioni.

«Sì?» disse Oscar con la sua voce roca e profonda.

«È fatta!» esclamai.

«Ciao, old boy! Congratulazioni!»

«È un ministro conservatore.»

«Buon per te. Amelia non avrà niente da obbiettare quando lo sputtaneremo pubblicamente» rispose ironico. Oscar era molto affezionato ad Amelia, anche se non si capacitava del fatto che a differenza di lui non sentissi il bisogno di tradire mia moglie. Sosteneva che con il matrimonio mi fossi terribilmente “imborghesito”.

«Domani avrai il materiale» dissi.

«C’è bisogno di un avvocato?»

«Non vedo perché. Era suolo pubblico.»

Raramente io e Oscar parlavamo in maniera esplicita al telefono. Costretto a fare i conti con la minaccia del terrorismo, il governo spagnolo non si faceva troppi scrupoli a ficcare il naso negli affari dei suoi cittadini, e le intercettazioni telefoniche erano una pratica relativamente diffusa.

«Quando rientri?»

«Vado in macchina fino a Barcellona e da lì prendo il primo volo.»

«Okay. Signing off, old boy » la prospettiva di un bel gruzzolo dava alla sua voce un tono caldo e compiaciuto.

«Salutami Gloria» dissi.

«Non mancherò.»

Pagai l’albergo e mi avviai alla macchina. Nella destra avevo la borsa da viaggio, a tracolla quella da fotografo con dentro i negativi che avrebbero fatto affluire sul mio conto bancario tante belle migliaia di dollari.

Una Mercedes nera nuova di zecca era parcheggiata di traverso davanti alla jeep. Due uomini erano in attesa, appoggiati alla macchina. Le braccia conserte davano loro un’aria minacciosa. Il primo non mi avrebbe causato grossi problemi. Era un ometto piccolo e grassoccio con una faccia larga sotto la pelata. L’altro, invece, era sulla trentina con un paio di bicipiti ben in vista sotto la giacca e un ghigno provocatorio stampato sulla faccia. A ben guardare, però, i muscoli, dall’aspetto artificiale e “pompato”, da body builder, ne facevano un avversario meno temibile di quanto potesse sembrare a prima vista, soprattutto per un tipo ben allenato come me. Da anni praticavo il karate, avevo imparato a conoscere il mio corpo e a fidarmi della sua forza. Nonostante il caldo entrambi gli sconosciuti indossavano la giacca. Il fottuto pastore doveva aver fatto la spia. Evidentemente era in grado di leggere, se non altro un numero di targa.

« Oyes, hijo de puta » esordì il più grosso dei due. Si raddrizzò e lasciò scivolare le mani lungo i fianchi. La viuzza era deserta. Ma dalla strada principale arrivava il rumore del traffico, e sentivo il fracasso delle imposte dei negozi che riaprivano dopo la siesta.

«Figlio di puttana sarai tu.»

Fece un passo in avanti, parandosi fra me e la jeep.

«Permetti? Vorrei salire sulla mia auto» dissi con provocatoria disinvoltura.

«Avanti, dammela!» abbaiò lui indicando la mia tracolla.

«È roba mia» dissi.

«Voglio i rullini. Le macchine te le puoi tenere. Su, muoviti!»

Poggiai la borsa da viaggio sull’asfalto. Sentivo il sudore colarmi lungo la schiena e il cuore accelerare i battiti. Concentrai l’attenzione sull’uomo che mi stava davanti. Non era affatto sicuro di sé come voleva darmi a intendere. Il suo sguardo era sfuggente e la striscia di pelle sopra il labbro superiore imperlata di sudore. Spinsi la borsa a tracolla dietro la schiena e sperai che qualche passante apparisse all’imboccatura della via. Il gorilla avanzò di un passo e fece il gesto di strapparmi la borsa dalla spalla. D’impulso gli afferrai la mano, trovai il suo mignolo e lo torsi rovesciandogli il braccio all’indietro. Gli sfuggì un grido. Senza dargli tempo di riprendersi gli sferrai una potente ginocchiata all’altezza dei testicoli. Aumentai la pressione sul braccio finché sentii scricchiolare l’articolazione della spalla. Non appena allentai la stretta si accasciò ai miei piedi con un gemito strozzato.

Raccolsi la borsa da viaggio. L’uomo grassoccio che aveva assistito immobile e atterrito alla scena si scostò dalla Mercedes e alzò le mani come per proteggersi.

Caricai le borse sulla jeep e misi in moto. L’adrenalina mi faceva tremare le mani, e la camicia fradicia di sudore era incollata alla schiena. Una famiglia di turisti in fondo alla via doveva aver osservato la colluttazione. La madre si copriva il viso con le mani, il padre teneva stretti a sé i suoi due ragazzi con fare protettivo.

Ero agitato, ma mi costrinsi a guidare piano e con prudenza fino all’ufficio dell’Avis, dove cambiai la jeep con un’Audi coperta e veloce. In autostrada cominciai finalmente a calmarmi, nonostante lanciassi frequenti occhiate allo specchietto retrovisore per controllare di non essere seguito. Solo quando mi ritrovai seduto sull’aereo per Madrid sentii di essere finalmente al sicuro. Misi una cassetta dei Grateful Dead nel walkman e reclinai lo schienale del sedile. L’aereo mezzo vuoto virò lentamente dirigendosi verso l’interno, e il Mediterraneo uscì dalla mia visuale. All’apparire della hostess con il carrello delle bevande fui assalito dal familiare, intenso desiderio di un drink. Il pensiero corse ad Amelia e a Maria Luisa e ordinai una Coca, sforzandomi di pensare al fatto che di lì a poco sarei stato a casa.

2

Per fortuna non c’era alcun sconosciuto dall’aria poco rassicurante ad aspettarmi all’aeroporto di Barajas, affollatissimo come sempre. Dopo una breve attesa montai su un taxi. La città era sovrastata da una cappa violacea fatta di smog e oscurità incipiente. Madrid era la mia casa da quasi un quarto di secolo. Quando, otto anni prima, mi ero sposato, avevo deciso di non lasciarla più. Non mi sentivo più un nomade, avevo messo radici. Ero felice, al punto da temere, a volte, che tanta serenità non potesse durare a lungo.

Il centro città ci accolse con il solito traffico intenso e strombazzante. Apparentemente il tassista condivideva il mio umore silenzioso. Era un marocchino magro e asciutto, probabilmente sprovvisto di permesso di lavoro.

All’altezza dell’ufficio postale di Plaza Cibeles svoltammo in direzione di Plaza Santa Ana, ma a duecento metri dalla piazza ci ritrovammo imbottigliati in un brutto ingorgo. Decisi di pagare per proseguire a piedi su per la salita di Paseo de Prados, in mezzo ai fumi degli scarichi e ai clacson degli automobilisti esasperati. Nell’afa della sera estiva, la metropoli raccoglieva un’energia strana, inquieta e aggressiva, che vibrava nell’asfalto e rimbalzava tra le schiere di palazzi. Di notte Madrid era un animale eccitato, in preda a un movimento apparentemente senza meta.

Plaza Santa Ana era il cuore del mio barrio. Vi ero approdato da giovane, per caso, e da allora avevo cambiato diversi indirizzi senza mai allontanarmi dalla zona. Il Teatro Real sorgeva su uno dei lati corti del rettangolo della piazza, dirimpetto al grande edificio bianco dell’Hotel Victoria. Lungo i due lati più lunghi erano allineati vecchi palazzi residenziali con bar e ristoranti al piano terra.

Ogni volta che tornavo da un viaggio, mi piaceva fermarmi con le spalle rivolte al teatro e contemplare la piazza, sfogliando mentalmente l’album delle sue immagini passate, diverse fra loro solo nelle sfumature: la lunghezza dei capelli delle donne, il taglio di un vestito, la forma di un’auto, il giocattolo di un bambino. Nel complesso il quadro era rimasto lo stesso. Il rombo delle macchine e delle motociclette, il chiacchierio delle donne, gli uomini avvolti nel fumo delle sigarette con i loro discorsi di calcio e di corrida. L’odore di benzina e quello di aglio proveniente dai caffè e dai ristoranti. Tutto era come sempre. Come avrei voluto che continuasse ad essere per sempre.

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