«Quando posso uscire?» domandai.
Lui esitò.
«Tra ventiquattro ore. Forse un po’ prima.»
«E perché non subito?»
«Dovremo far in modo che le formalità vengano rispettate e quindi farla rilasciare dal giudice. Per dirla chiaramente, abbiamo fatto qualche pressione su di lui perché la mettesse in prigione. Non credo sia il caso di sottoporlo a ulteriori pressioni.»
«Vuol forse dire che quell’uomo prende la sua carica sul serio?» chiesi.
«Forse.»
«Questa faccenda mi puzza.»
Il piccoletto mosse qualche passo su e giù per la cella. Guardandolo camminare vidi chiaramente quanto poco spazio avessi a disposizione. Sapevo che sarei impazzito se fossi rimasto da solo per mesi in una cella tanto angusta.
«Come faccio a farvi avere le foto? Sono in isolamento.»
«A questo si può rimediare. Domani mattina le metteranno a disposizione un telefono. Le daranno giornali, una radio, un televisore, tutto il cibo e le ore d’aria che vorrà. Ma il procedimento avviato nei suoi confronti potrà essere sospeso solo dalle autorità competenti.»
Allargò le braccia. Come a dire: questi sono i patti, non ho altro da aggiungere, non posso spingermi oltre.
«Okay» dissi.
«Accetta l’accordo?»
Adesso sembrava sorpreso, ma che si aspettava? Che mi mettessi a urlare? Che pretendessi di essere rilasciato immediatamente? Conoscevo il suo mondo abbastanza bene da sapere che era venuto con una proposta che era tale solo di nome, prendere o lasciare.
«Sì.»
«È un piacere trattare con lei» disse tendendo la mano. La strinsi. Mi lasciò le sigarette e l’accendino. I due se ne andarono augurandomi la buona notte e informandomi che ci saremmo rivisti l’indomani. Fumai un’altra sigaretta prima di distendermi supino sul tavolaccio e addormentarmi. Non ero del tutto soddisfatto di me stesso, sebbene probabilmente quella fosse la soluzione migliore. Oscar ci sarebbe rimasto un po’ male per i soldi, ma sicuramente avrebbe capito che le foto di un caprone e una bella attricetta italiana non valevano tutti i fastidi che ci saremmo procurati se le avessimo rese possibili. Avevamo perduto una battaglia. Ne avremmo vinte altre. O forse quella faccenda mi avrebbe fornito l’occasione di abbandonare per sempre l’aspetto meno nobile della mia professione. Di abbandonare la carriera di paparazzo.
In realtà ci pensavo da parecchio, almeno da quando mia figlia aveva cominciato a parlare. Perché in fondo mi ripugnava l’idea di campare della vulnerabilità della gente. Avrei potuto concentrarmi sui ritratti e fare un reportage giornalistico di quando in quando. Certo, si trattava di attività meno redditizie, ma la mia famiglia aveva abbastanza denaro. Vendendo la mia quota dell’agenzia, avrei potuto permettermi di non muovere un dito per il resto dei miei giorni, se avessi trovato un consulente finanziario in gamba. Provavo un senso di sollievo. Forse non avevo preso una decisione definitiva, ma avevo fatto un passo nella direzione giusta. Non sospettavo che il destino si sarebbe incaricato di rimescolare le carte.
L’indomani mattina c’era una nuova guardia carceraria, più giovane di quella del giorno precedente. Mi portò caffelatte, pane, burro, i giornali del mattino, una radio. E un telefono portatile: evidentemente le celle non erano completamente isolate come avevo ipotizzato. O forse erano dotate di un sistema di insonorizzazione che era stato disattivato.
Infatti, percepivo adesso qualche suono proveniente dall’esterno: dei colpi, un fruscio, un tintinnio, una voce. Oppure quello era un telefono speciale. Quasi certamente si poteva usare solo per chiamare, e da qualche parte due orecchie governative erano in attesa di ascoltare la mia conversazione. La nuova guardia carceraria specificò che il telefono costituiva una grave violazione del regolamento, ma aveva ricevuto l’ordine di lasciarmelo per un quarto d’ora, poi sarebbe tornato a riprenderlo.
Telefonai immediatamente ad Amelia. Rispose al primo squillo e quando sentì la mia voce scoppiò a piangere. Non doveva aver chiuso occhio, ma era una donna forte e coraggiosa e si sforzò di controllarsi in modo che potessimo parlare. Le dissi che stavo bene e sarei tornato entro ventiquattr’ore. Le spiegai in breve la situazione e l’accordo che avevamo raggiunto.
«La danese ha chiesto di te» disse.
«Chi?»
«Non mi ricordo come si chiama.»
«Ah, quella» dissi.
«Ha chiesto di… be’, lo sai.»
«Ho altro cui pensare adesso» dissi irritato.
«Posso fare qualcosa?» domandò.
«Avverti tuo padre. Io sto bene. Ci vediamo presto. Bacia la piccola.»
«L’ho mandata a scuola. Ho pensato fosse meglio così. Le ho detto che eri partito per uno dei tuoi soliti viaggi.»
«Avresti potuto dirle la verità. Non ho niente di cui vergognarmi.»
Ci fu una breve pausa.
«Pedro» disse lei.
«Sì, amore mio.»
«Ti amo.»
«Anch’io ti amo.»
«Torna a casa, presto.»
«Sì, certo. Non ti preoccupare. Bacia Maria Luisa per me!»
«Certo.»
« Adios » dissi interrompendo la comunicazione.
I quindici minuti erano quasi scaduti quando feci il numero diretto di Gloria. Oscar si sarebbe lasciato andare alla rabbia, mentre Gloria avrebbe saputo esattamente cosa dire e cosa fare. Ma Oscar era nell’ufficio di Gloria. Lo sentii imprecare e agitarsi in sottofondo mentre raccontavo tutto a sua moglie.
«Abbiamo già messo tre, anzi quattro avvocati al lavoro per tirarti fuori» disse con la sua bella voce familiare. «Ma quelli sfruttano la legge antiterrorismo, pensano di non essere tenuti a dare alcuna spiegazione.»
«E Oscar, che dice?»
«Oscar fa avanti e indietro per la stanza, maledice i fascisti e non è di alcun aiuto.»
«Ciao, old boy. Tieni duro!» Lo sentii gridare. Spiegai i dettagli del patto stretto con gli uomini del ministro e sottolineai il fatto che la stampa dovesse assolutamente restarne fuori.
«Hai fatto bene ad accettare, Peter. Esporsi alle loro ritorsioni sarebbe stato dannoso anche per gli affari e noi dobbiamo farti uscire adesso. Non sopporto il pensiero di te chiuso in cella. Mi fa andare in bestia. E sta’ zitto, Oscar! Che devo fare, Peter?»
Le dettai il numero di telefono che il piccoletto mi aveva dato al termine del nostro incontro di quel mattino e la pregai di consegnargli le foto e i negativi.
«E l’assicurazione?» domandò Gloria.
«Non ci pensare» le risposi.
«D’accordo. C’è altro?»
«Come sta Amelia?»
«Bene. La conosci meglio di me, non è il tipo da abbattersi facilmente. Ma ovviamente non è facile. Quella donna è unica, Peter. Ma questo già lo sai.»
«Grazie.»
«Abbi cura di te, cariño. Non ho rinunciato all’idea di farti uscire entro oggi.»
«Sarebbe bello.»
La comunicazione fu interrotta. Mi avevano dato un telefono senza fili che potevano “riagganciare” a loro piacimento. Poco dopo arrivò la guardia giovane per ritirare l’apparecchio.
Le ventiquattr’ore che seguirono furono noiose, ma tutto sommato serene e paradossalmente quasi rilassanti. Forse perché sapevo che di lì a poco sarei stato rilasciato.
Lessi i giornali, fumai, mangiai, uscii in cortile e sonnecchiai. Chiesi un caffè e fui accontentato, bevvi acqua, rilessi i giornali, ascoltai la radio — il televisore non me lo avevano portato — e pensai alla mia famiglia. Poi mi sdraiai a guardare il soffitto e ad aspettare il sonno, che come sempre stentava ad arrivare.
Alla fine riuscii ad addormentarmi fiducioso.
Non sapevo che, in quelle stesse ore, il mio mondo crollava rovinosamente. Che il mio viaggio all’inferno era cominciato.
Poco prima che venissero a svegliarmi feci un brutto sogno. Ero circondato da un paesaggio surreale fatto di montagne finte coperte di finta neve. La luce era di un blu oltremare, come in una scenografia di Hollywood o in una foto rielaborata al computer. A un tratto l’orizzonte si oscurò come prima di un temporale. In una grotta dalle pareti viscide e grigie, rimestavo un pentolone in ebollizione su una stufa a gas. C’erano anche Oscar e Gloria, mi davano le spalle, ma potevo vedere ogni loro mossa. Oscar era fasciato in uno dei suoi impeccabili completi, era più alto che nella realtà e teneva in mano un libro dalla copertina nera. I capelli di Gloria erano rossi. Indossava una tunica ampia e lunga fino alle caviglie, ma poco dopo improvvisamente era nuda, con il sesso coperto da un quadratino rosso come in una foto censurata. Oscar le porse il libro e lei fece per prenderlo, aveva mani vecchie e nodose e unghie lunghissime. Oscar disse: «Prendi il libro mastro. Tutto è stato contabilizzato e controllato». Gloria ci ripensò, non voleva più prendere il pesante libro nero. Protestò: «Ti ho chiesto la resa dei conti, non il libro dei conti». Volevo dire loro che Oscar aveva preso il libro giusto, ma ero impegnato a rimestare il contenuto ribollente della pentola e non osavo girare la testa in direzione dei miei amici.
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