Mi diressi verso quel che restava del mio appartamento mentre cronisti e fotografi mi correvano incontro. Anche se raramente firmavo le mie foto, nell’ambiente il mio volto era conosciuto. Con gli obbiettivi delle macchine puntati addosso come tanti bazooka, raggiunsi una transenna da dove potevo guardare dentro il palazzo incenerito.
Il puzzo e il calore mi colpirono in viso facendomi avvampare. Seppi che i fotografi si erano assicurati un buono scatto quando le lacrime cominciarono a solcarmi le guance. Non riuscivo a riconoscere nulla. Era come se una bomba avesse mandato in frantumi le viscere della mia casa. Intorno a me continuava la pioggia di domande. A malapena le udivo.
A un tratto mi si parò di fronte Felipe Pujol, un catalano piccolo e tozzo che faceva la cronaca nera per «El Mundo».
«Pedro? Come stai? Perché ti hanno arrestato?» Non risposi.
«Levati dai coglioni, Felipe!» disse Oscar alle mie spalle.
Felipe non gli badò. Mi venne talmente vicino che per poco non mi pestò i piedi e inchiodò lo sguardo al mio. Potevo sentire il suo odore. Quella mattina, insieme al caffè si era concesso un brandy.
Disse:
«Ho saputo che stavi per sputtanare un ministro. È questa la ragione di tutto questo casino? Dai, Pedro, parla! Accidenti, sei del mestiere. Dammi la storia! Potrà essere utile anche a te. È vero che hai scattato una serie di foto piccanti? “El Mundo” vuole l’esclusiva».
Gli sferrai una ginocchiata nelle palle e lui si ripiegò su se stesso senza emettere il benché minimo suono, mentre sul suo volto si dipingeva un’espressione sofferente e sbigottita. Girai i tacchi e, servendomi di Oscar come frangiflutti, mi feci largo tra la folla di fotografi, giornalisti e telecamere. C’era anche la troupe della «TV del Mattino», un contenitore di tragedie, pettegolezzi, scandali, ricette di cucina e bollettini del traffico. Dovevano essere in diretta. Oscar, grosso com’era, faticò ad aprirsi un varco mentre io lo seguivo come in trance. Tutto mi sembrava un sogno, confuso e lattiginoso, da cui mi sarei svegliato di lì a un istante, quando avrei teso la mano e accarezzato la schiena di Amelia addormentata accanto a me, il suo morbido sedere a pochi centimetri dal mio ventre.
Alcuni poliziotti ci circondarono scortandoci verso la macchina dove Gloria aveva preso posto dietro il volante. Oscar si sedette accanto a me sul sedile posteriore.
«Maledetti sciacalli.»
«Sciacalli e colleghi » sottolineò Gloria con voce cupa.
«Voglio bere qualcosa» dissi.
«Okay» rispose Oscar.
«No!» disse Gloria.
Non ricordo nient’altro del tragitto verso Amelia e Maria Luisa.
So che più tardi mi ritrovai davanti a due corpi coperti da un lenzuolo dentro una stanza rivestita di sterili piastrelle. Il medico, o poliziotto, scostò il lenzuolo. Entrambe avevano i capelli coperti come da una cuffia da bagno. No, i capelli non c’erano più. Il viso bruciato di Amelia era praticamente irriconoscibile. Maria Luisa aveva pochi segni di ustione, ma era coperta di fuliggine e aveva una grossa vescica sulla guancia. Quando notai che non aveva più le ciglia, scoppiai in un pianto disperato.
«Sono sua moglie e sua figlia?» domandò l’uomo con il camice bianco.
«Sì.»
«Vorrei il suo consenso per effettuare l’autopsia.»
«Perché?»
A rispondere fu un uomo di mezza età che indossava un abito di buon taglio.
«Ne ho fatto richiesta, Señor Lime.»
Era in piedi in un angolo della stanza e fino a quel momento non lo avevo notato. Gloria e Oscar erano rimasti sulla porta, pallidi come spettri. Gloria si era infilata una felpa che doveva aver trovato in macchina e aveva i capelli scarmigliati come se fosse appena scesa dal letto.
«Rodriguez, squadra omicidi» disse l’uomo elegante mostrando il distintivo. Aveva mani esili e brune. Notai un piccolo anello con diamante e la fede. Gloria fece un passo avanti per proteggermi, ma io alzai la mano per indicare che il suo intervento non era necessario.
«Non sono in grado di prendere una decisione adesso» dissi.
«E quando? Presto dovrà fissare il funerale» insisté lui.
Era vero. In Spagna seppelliscono i morti molto in fretta, non aspettano anche una settimana, come accade in Danimarca. È un’usanza che risale ai vecchi tempi, quando i cadaveri non potevano rimanere esposti al caldo torrido. E poi, a differenza di noi danesi, i cattolici si preoccupano dell’anima più che della carne.
«Perché l’autopsia?» domandai ancora.
Lui fece un passo avanti e infilò un paio di guanti da chirurgo sulle mani affusolate. Con delicatezza girò la testa sfigurata di Amelia. Mi assalì un senso di nausea, ma non avevo più niente nello stomaco. Puntini luminosi danzavano davanti ai miei occhi.
«Guardi qui, Señor Lime» facendo scorrere l’indice guantato lungo il collo di Amelia, mi indicò due piccoli affossamenti.
Rodriguez continuò:
«Vede? Né io né il patologo riusciamo a spiegarci il perché di questi segni. Farebbero pensare a un tentativo di strangolamento. Oppure potrebbe essere rimasta impigliata in un cavo… Dobbiamo stabilire se risalgano a prima o dopo l’incendio, capisce? Era già morta quando è scoppiato l’inferno? Si è trattato di una tragica fatalità oppure stiamo parlando dell’omicidio di tredici persone? Ci dia l’autorizzazione a procedere con l’autopsia. Altrimenti saremo costretti ad andare per vie legali».
Il tempo si fermò. Mi voltai verso Gloria e Oscar:
«Vendete le maledette foto» dissi, poi tutto si fece nero.
Che il tempo guarisca ogni male è una grande fandonia. Il tempo non guarisce un bel niente, lenisce il dolore come una pasticca calma un brutto mal di testa. Il dolore acuto e insopportabile si trasforma in un tormento continuo, che ci assedia anche di notte, quando il sonno tarda ad arrivare.
Il periodo che seguì la morte di Amelia e Maria Luisa fu terribile, caotico e sconcertante. Persi il controllo degli eventi quasi fossi ridiventato un bambino costretto a dipendere dalle cure e dalle decisioni dei grandi. Persone benintenzionate si fecero carico della mia vita e mi guidarono attraverso l’oscurità del tunnel, fino al chiarore di un sole debole e malaticcio. Gloria e Oscar si occuparono con l’abituale efficienza delle cose di carattere pratico. Dell’assicurazione, della causa per danni contro lo stato spagnolo e della vendita delle foto del ministro, che fecero il giro del mondo e ci fruttarono una piccola fortuna. Il risarcimento dell’assicurazione fu ingente, ma il valore artistico e affettivo dei miei negativi bruciati non poteva essere ripagato. Gli armadietti in materiale “ignifugo” erano stati distrutti dalle fiamme e l’instancabile Gloria fece causa anche alla casa produttrice.
I media, intanto, imperversavano. Le foto piccanti del ministro e la dichiarazione ufficiale secondo la quale l’incendio era di origine dolosa scatenarono sul caso una violenta tempesta mediatica.
Secondo i risultati dell’autopsia, Amelia era morta strangolata prima che divampasse l’incendio. Maria Luisa era morta asfissiata dai gas di combustione. Il resto delle vittime aveva perso la vita nell’incendio. Nel nostro appartamento erano state rinvenute tracce di esplosivi.
Di fronte alle velate allusioni della stampa, il ministro negò recisamente qualunque responsabilità e coinvolgimento nella tragedia di Plaza Santa Ana. In ogni caso fu costretto a dare le dimissioni: le foto scabrose erano incompatibili con l’immagine pubblica del membro di una coalizione di governo che faceva dei valori tradizionali la propria bandiera.
Il commissario Rodriguez brancolava nel buio. Di quando in quando veniva a ragguagliarmi sulle scarse novità emerse dalle indagini. Un unico testimone aveva visto due uomini lasciare l’appartamento poco prima che l’esplosione facesse saltare i vetri del palazzo. Erano piuttosto muscolosi e avevano i capelli neri come milioni di spagnoli. Si erano allontanati in direzione di Puerta del Sol. Più o meno era tutto. Rodriguez credeva possibile che si trattasse di un attentato dell’ETA diretto contro il bersaglio sbagliato. Nel palazzo viveva infatti, sotto falsa identità, una donna affidata al programma protezione testimoni dei servizi segreti, Carmen Arrese. Era basca e dieci anni prima aveva testimoniato contro l’ETA. A motivare il suo gesto era stata una delusione amorosa: uno dei capi l’aveva lasciata.
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