«Ti aiuterò, Pedro. Non desidero vendicarmi, e ho smesso di credere anche nella giustizia. Ma ti aiuterò ugualmente, per due ragioni. Perché servirà a distrarti da quel dolore che cerchi di nascondere a me e a te stesso. In secondo luogo, lo farò perché te lo devo: hai dato a mia figlia i suoi anni più felici, e a me una splendida nipotina.»
L’indomani andai in ufficio. Madrid boccheggiava assediata da un’impossibile calura e dal solito, caotico esercito di auto strombazzanti. L’asfalto cuoceva e le foglie penzolavano tristemente, secche e impolverate, dai rami degli alberi.
L’agenzia era su Paseo de la Castellana, una strada pedonale sempre molto frequentata. Oscar e Gloria, proprietari di tutto il palazzo, abitavano nell’attico; la Ospe News era al piano di sotto, sulla sinistra uscendo dall’ascensore. A destra invece c’era lo studio legale di Gloria, dove giovani avvocati rampanti rimanevano incollati a computer e telefoni fino a tarda sera. Possedevo quote importanti di entrambe le società, due realtà strettamente interdipendenti, che tenevamo distinte soltanto per ragioni fiscali.
Da giovane avvocatessa neo laureata, negli anni del tramonto della dittatura, Gloria si era fatta le ossa e un nome difendendo socialisti e comunisti, liberali e sindacalisti, attivisti dei gruppi studenteschi e terroristi dell’ETA o della GRAPO con la furia di una leonessa, in aula e sui media. La stampa impazziva per quella giovane, avvenente avvocatessa politicamente impegnata, non si stancava di decantare il fulgore dei suoi occhi neri e il fascino selvatico della sua chioma scarmigliata.
A distanza di tanti anni Gloria accettava ancora qualche rara causa penale a titolo gratuito o in cambio della misera parcella che le autorità riconoscevano al difensore incaricato d’ufficio. Preferiva le cause in cui l’imputato era povero e donna, meglio se maltrattata dal marito. La sua percentuale di successi era invidiabile: nella maggior parte dei casi otteneva l’assoluzione o una pena minima per l’imputata. Le sue cause attiravano sempre l’attenzione dei media, e lei le accettava sia perché amava cimentarsi contro uomini che raramente si dimostravano alla sua altezza, sia perché in quel modo appariva in televisione. E la televisione attirava clienti come un biscotto le formiche.
A Madrid l’Ospe News aveva quattro dipendenti fissi incaricati di sbrigare il lavoro pratico, mentre una rete di free-lance sparsi in tutto il mondo ci procurava le foto e controllava che i nostri diritti ci fossero riconosciuti. Negli ultimi anni avevamo lanciato con successo uno studio per la produzione di video e spot televisivi, in più affittavamo attrezzature ai reporter che venivano da fuori.
Il mio ufficio e quello di Oscar erano separati dal locale riservato alle segretarie. Nel mio c’erano una vecchia scrivania, un computer nuovo, un telefono, un logoro divano, un televisore di venti pollici di produzione spagnola. A differenza di Oscar, non avevo un tavolo per riunioni da dodici, né arte spagnola contemporanea alle pareti, né una sedia girevole high-tech dietro la scrivania sterminata, né un impianto multimediale danese di marca Bang e Olufsen.
In piedi davanti alla finestra dell’ufficio di Oscar, io stavo bevendo una Coca, Oscar e Gloria dell’acqua. L’aria lì dentro era fresca, in forte contrasto con la cappa calda e fuligginosa che avvolgeva la città. Anche prima della tragedia, mi recavo in Paseo de la Castellana solo di tanto in tanto, preferendo lavorare da casa. Negli ultimi due mesi non ci avevo praticamente messo piede.
I miei soci avevano festeggiato la mia inaspettata apparizione incaricando le segretarie di rimandare gli appuntamenti del mattino, ma non gli impegni per pranzo: sapevano che non mi sarei fermato tanto a lungo. Come al solito si profusero in mille attenzioni, gentilezze e manifestazioni d’affetto. Anche se avrei preferito un atteggiamento diverso, apprezzavo la loro buona fede. Oscar e Gloria, pensai, erano la mia famiglia, l’unica che mi rimanesse.
Quando li informai che avevo intenzione di andare nelle Province Basche, Gloria scosse il capo. Era un’idea stupida e pericolosa, non era davvero il caso di mettersi a giocare all’investigatore privato. Oscar era d’accordo con lei.
«Non si tratta di un gioco» spiegai. «Ho bisogno di andare via per un po’. Farò quattro chiacchiere con Tómas e gli altri ragazzi, mi fermerò a casa per qualche giorno. Avrò la sensazione di stare facendo qualcosa. »
Da quando Amelia e Maria Luisa erano morte, non ero ancora tornato nella nostra casa di San Sebastián. Avevo paura di rivederla. L’incendio aveva cancellato con efficienza tutti i ricordi fisici della mia famiglia presenti nell’appartamento di Madrid, ma in quella casa avrei trovato vestiti, foto, giocattoli, libri, quaderni, profumi.
«Hai bisogno di tenere la mente occupata? Ho un’idea migliore» disse Oscar. «Perché non parti per una delle tue missioni? Ho avuto una buona dritta sui reali inglesi e tu sei il migliore, Peter. Devi riprendere a fotografare. A vivere…»
Il mio sguardo dovette convincerlo che non valeva la pena di insistere, perché a un tratto ammutolì. Gloria mi osservò in silenzio per qualche istante.
«E va bene, Peter. Vai a San Sebastián se è quello che vuoi» disse. «Prenderai l’aereo?»
«No, ci vado in moto» risposi.
«Ultimamente guidi come un pazzo. E non ti sogni di mettere il casco.»
«Sei troppo vecchio per fare il verso a Easy rider » disse Oscar.
«La citazione è calzante. Uno zaino, una macchina fotografica, i miei ricordi: non possiedo nient’altro.»
Oscar rise:
«Dimentichi le carte di credito. Ah, eccoti trasformato in un vecchio hippy di lusso! E pensare che quando ci siamo conosciuti, in tasca avevamo solo spiccioli, non sapevamo quando avremmo mangiato e non ce ne importava assolutamente niente!».
Quello era l’Oscar dei vecchi tempi. Risi insieme a lui, mentre Gloria tradiva un’espressione infastidita.
«E Don Alfonso?» domandò Gloria.
«Mi darà una mano.»
«Fareste meglio a lasciar fare al governo. Stanno passando la città al setaccio. Non mollano» disse Gloria.
Era vero. La polizia si dava un gran da fare, e nel cuore dei madrileni la paura aveva lasciato il posto all’irritazione: erano stufi di tutte quelle transenne, controlli, indagini, falsi allarmi. Ma l’interesse della stampa per la mia vicenda era ancora vivo. Che rapporto avevo con Dio? Ero favorevole all’introduzione della pena di morte per i terroristi? Che libro avevo sul comodino al momento? I giornalisti mi bombardavano delle loro sciocche domande; fioccavano gli inviti ai talk show, ma io respingevo ogni assalto per tramite della mia inflessibile, intrepida segretaria.
«È molto strano che l’ETA non abbia ancora rivendicato la paternità dell’attentato» dissi.
«Hanno commesso uno sbaglio clamoroso, terribile» ribatté Gloria.
«Voglio sentire cosa ne pensa Tómas. Anche se probabilmente finiremo col parlare solo dei vecchi tempi».
«Almeno portati dietro questo» disse Oscar porgendomi il mio cellulare. Non lo avevo più acceso da quando la polizia lo aveva sequestrato, ed esitai prima di prenderlo.
«Desideriamo poterci mettere in contatto con te» disse Gloria. «Ti vogliamo bene, Peter.» Annuii.
Digitai il mio codice pin e il telefonino si animò con una serie di frenetici bip. Mi sedetti e chiamai la segreteria. Diversi contatti di lavoro e alcuni amici mi facevano le condoglianze. L’ultimo messaggio era di Clara Hoffmann, in danese. Il rumore di sottofondo mi spinse a immaginarmela in piedi sul balcone dell’Hotel Victoria, intenta a osservare il via vai di Plaza Santa Ana.
«Peter Lime. La notizia della tragedia mi addolora in modo indicibile. Ti sono vicina e ti porgo le mie più sentite condoglianze. Oggi riparto per la Danimarca. So che il momento è dei meno opportuni, ma è mio dovere ricordarti che qualunque informazione riguardante la donna e l’uomo della foto ci sarebbe preziosa. Quando te la sentirai chiamami a Copenaghen. Altrimenti forse mi rifarò viva io. Credimi, sono addolorata, più di quanto riesca a esprimere a parole.»
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