Leif Davidsen - Quando il ghiaccio si scioglie

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Peter Lime, danese, professione fotografo, è felicemente sposato e dirige una fiorente agenzia. Durante un appostamento per un servizio scandalistico, scatta di nascosto una serie di foto compromettenti a un ministro del governo spagnolo impegnato in calde effusioni con una giovane starlette televisiva. E’ l’inizio di un’allucinante spirale di misteri e violenza che lo risucchia senza possibilità di scampo. La chiave è forse nascosta in un’altra immagine, scattata vent’anni prima e nell’identità misteriosa della donna che vi è ritratta.

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Parcheggiai la moto e smontai. La chiave era al suo posto, sotto il vaso accanto alla porta sul retro. L’interno della casa era immerso in un silenzio, pregno dell’odore di Amelia e Maria Luisa. Vidi i loro impermeabili, gli ombrelli e il calendario perpetuo su cui Amelia aveva annotato i compleanni di amici e parenti. Allo sportello del frigo erano attaccate cartoline, promemoria, un disegno di Maria Luisa e una foto della sua migliore amica.

Uscii a recuperare lo zaino, presi il sacco a pelo e lo srotolai sulla veranda di legno che avevano fatto costruire tutt’intorno alla casa. Mi addormentai immediatamente con in testa l’immagine della strada nera e un senso di vuoto nel cuore.

Mi svegliai nel bel mezzo di un incubo. Arregui era accovacciato di fronte a me. Aveva il viso largo, squadrato, la pelle color cuoio e i capelli bianchi, folti e spessi. Gli occhi erano neri, i denti macchiati dal tabacco delle sigarette che rollava a mano e fumava una dietro l’altra.

« Hola! Pedro» disse con la sua voce profonda.

« Buenos días , Arregui» risposi.

«Perché ti sei messo qua fuori? Hai forse paura dei fantasmi?»

«Può darsi.»

«Facciamoci un caffè» propose entrando in casa ad accendere la stufa. Uno dei cani di Arregui mi si avvicinò e io lo grattai distrattamente dietro le orecchie mentre guardavo il sole spuntare sopra le montagne più alte. Dovevo aver dormito non più di un paio d’ore. La rugiada brillava sulle cromature della Honda e copriva gli steli d’erba come tante piccole perle.

Arregui portò il caffè con zucchero e latte caldo in due grosse tazze, insieme a un po’ di pane e al suo formaggio di pecora. Dopo le chiacchiere sul gregge e sul tempo, gli chiesi notizie di Tómas e della figlia in prigione. Mi rispose che vivevano la vita che Dio aveva scelto per loro. Sua figlia era l’ennesima martire della lotta per la libertà, Tómas, invece, aveva rinunciato a combattere. Finito di mangiare mi salutò. Portava il gregge in montagna, dove spesso gli piaceva fermarsi a dormire all’aperto. Fischiò per richiamare i cani e si mise in cammino. Rimasi seduto a guardare lui e le pecore che si allontanavano finché divennero tanti puntini contro il fianco verde della montagna.

Poi setacciai la casa a caccia di tracce fisiche della vita di Amelia e Maria Luisa. Vestiti, foto, lettere, giocattoli: bruciai ogni cosa. Aveva ragione Arregui, avevo paura dei fantasmi che quegli oggetti avrebbero evocato. A tormentarmi bastavano le mie memorie, gli odori, tutto ciò che di intangibile avrebbe gravato per sempre sul mio cuore.

Era l’una passata quando presi la moto per andare a San Sebastián a cercare Tómas. Era una giornata calda, e il lungomare e la spiaggia erano pieni di gente. San Sebastián era una città tutta bianca, bellissima. Il terrorismo penalizzava l’economia delle Province Basche, ma a San Sebastián la crisi non si notava. La gente era ben vestita, i bar e i ristoranti del centro pullulavano di vita.

Mi fermai al bar preferito di Tómas per una Coca e uno spuntino. C’erano bocconcini di polipo, gamberetti con uova, sardine e pezzetti di prosciutto disposti su piccole fette di pane fresco. Ero in piedi al bancone e tenevo d’occhio la porta, così quando arrivò Tómas lo scorsi prima che lui vedesse me. Era poco più giovane di me, ma gli anni lo avevano trattato bene. Diceva sempre che il carcere era un’ottima ricetta per tenersi in forma: si faceva molto moto, il vitto era povero di grassi e gli alcolici non erano ammessi. Aveva il viso largo del padre, ma il suo corpo era snello, le mani affusolate. I capelli spruzzati di grigio e gli occhiali gli davano un’aria molto rispettabile. Si guadagnava da vivere sviluppando software per finanziarie e grandi aziende. Avevo conosciuto Tómas nel 1972, due anni prima che finisse in carcere e fosse condannato a morte dalla dittatura franchista per terrorismo. Qualcuno ci aveva presentato una sera a San Sebastián e avevamo incominciato a chiacchierare, trovandoci subito molto simpatici. Ero al corrente delle sue inclinazioni politiche, ma prima di leggere del suo arresto non avevo mai sospettato che fosse un membro dell’ETA. Ero andato a trovarlo in carcere, e quando era stato amnistiato insieme agli altri detenuti politici gli avevo dato una mano a ricominciare.

Il suo viso si illuminò in un sorriso quando mi vide, ci abbracciammo forte prima di passare nella stanza sul retro per pranzare insieme.

Chiesi una Coca, lui del vino. Chiacchierammo del più e del meno, evitando l’argomento del mio lutto: ne avevamo parlato più volte per telefono e sapevo che, benché fosse scapolo e senza figli, capiva perfettamente il mio dolore. Aveva perso molti amici durante gli anni di militanza nell’ETA. Considerava chiusa quell’esperienza e disprezzava la nuova generazione di attivisti, ma era pur sempre un basco e non sarebbe mai riuscito a denunciarli. Sapevo di potermi fidare di lui. A suo tempo aveva agito da mediatore segreto tra il governo socialista e l’ETA nel tentativo di trovare un compromesso. Ma il nuovo governo conservatore si rifiutava nel modo più assoluto di trattare con i terroristi e ultimamente gli episodi di violenza si moltiplicavano.

Dopo il caffè gli rivolsi la domanda che più mi stava a cuore:

«Tómas, sono stati loro a uccidere Amelia e Maria Luisa? È stato tutto un terribile errore?».

Mi accesi una sigaretta mentre lui, che aveva smesso di fumare, con le mani tormentava il tovagliolo.

«No, Peter» disse. «Non sono stati loro. Non sapevano che quella donna abitasse nel palazzo.»

«E allora chi è stato?»

«Non lo so. Non riesco a immaginare chi…»

«Se davvero non hanno colpa, perché non hanno negato la paternità dell’attentato?»

Abbassò lo sguardo e avvicinò la tazzina alle labbra, anche se del caffè non era rimasto che il fondo. Poi disse, sottovoce ma con rabbia, una rabbia rivolta contro se stesso:

«Lo scopo di ogni organizzazione terroristica è destabilizzare la società in cui opera alimentando uno stato di angoscia collettiva. La bomba di Plaza Santa Ana ha alzato il livello di tensione nel paese, un fatto assolutamente coerente con i loro obbiettivi. Perché avrebbero dovuto dissociarsene? Tutti credono che abbiano voluto colpire una spia, di conseguenza altri esiteranno prima di collaborare, perché l’ETA ha dimostrato che il braccio della vendetta è lungo».

Diceva cose sensate. L’ETA si era votata alla lotta armata a partire dal 1968, quando Tómas era poco più che adolescente. All’epoca, dopo un’azione, i militanti trovavano rifugio in Francia che, al pari di altri paesi europei, li considerava partigiani in lotta per una causa giusta: il capovolgimento della dittatura di Franco.

«Ho bisogno di sapere chi è stato e perché» dissi. «Altrimenti non riuscirò mai a farmene una ragione.»

«E se l’obbiettivo fosse stata la distruzione delle foto piccanti di quel politico? O forse al signor ministro non piace essere spiato e ha sentito il bisogno di vendicarsi…»

Scossi il capo. «Vorrei sentirmelo dire dai diretti interessati» dissi «che qui l’ETA non c’entra.»

«È una cosa molto rischiosa, Peter. Rischiosa per me, per te, per loro. L’ETA è divisa, i suoi capi sono impauriti, nervosi, aggressivi.»

«Aiutami, Tómas.»

Esitò in silenzio per qualche minuto, lo sguardo fisso sulla tazzina vuota. Infine sembrò decidersi, mi guardò un istante, si alzò e uscì dal ristorante. Io rimasi dov’ero, ordinai un altro caffè e pagai il conto. Tómas tornò dopo venti minuti. Non sapevo cosa avesse fatto, a chi avesse telefonato e non mi sarei mai sognato di domandarglielo.

Si sedette. Sudava come se avesse camminato troppo in fretta nella calura pomeridiana, ma il motivo poteva anche essere l’agitazione. Era un cittadino libero e rispettoso della legge, ma sapeva perfettamente che sia i servizi segreti spagnoli, sia i vecchi compagni lo avrebbero tenuto d’occhio fino alla fine dei suoi giorni. In fondo, la sua era la vita tormentata, inquieta e stressante di chi si trova tra due fuochi.

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