Leif Davidsen - Quando il ghiaccio si scioglie

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Quando il ghiaccio si scioglie: краткое содержание, описание и аннотация

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Peter Lime, danese, professione fotografo, è felicemente sposato e dirige una fiorente agenzia. Durante un appostamento per un servizio scandalistico, scatta di nascosto una serie di foto compromettenti a un ministro del governo spagnolo impegnato in calde effusioni con una giovane starlette televisiva. E’ l’inizio di un’allucinante spirale di misteri e violenza che lo risucchia senza possibilità di scampo. La chiave è forse nascosta in un’altra immagine, scattata vent’anni prima e nell’identità misteriosa della donna che vi è ritratta.

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«Perché vi interessa quella valigia?» biascicai dal fondo di un crepuscolo alcolico in cui sogno e realtà incominciavano a confondersi.

«Le domande le facciamo noi. Tu sei quello che risponde» disse lui.

«Non sono altro che ricordi, bastardo! Dentro ci sono soltanto i miei miseri, insignificanti, fottuti ricordi!» gridai. «La mia fottutissima vita…»

Ormai ero completamente andato, ma ricordo confusamente di aver blaterato a ruota libera della mia valigia, di Amelia, Maria Luisa e Don Alfonso. Di Oscar, Gloria e Jacqueline Kennedy Onassis su un’isoletta greca. Era insieme a un’amica e le avevo seguite fino a una caletta appartata. Jackie aveva steso l’asciugamano, poi si era tolta i calzoncini e la blusa. Non portava il bikini e aveva cominciato a spalmarsi il corpo nudo di olio solare; io mi ero steso al riparo di una grossa roccia e avevo scattato la serie di foto che aveva reso Oscar e me milionari e l’Ospe News un’agenzia fotografica di fama mondiale.

Al termine della mia storia sull’incontro con Jackie e la svolta che aveva rappresentato per la mia carriera, Manganello mi afferrò un braccio e ringhiò:

«Non ci interessano le tette e i culi, Lime. Ci interessa la valigia. Vogliamo poter scegliere da soli le nostre foto preferite. Allora, dove diavolo è?»

Non ricordo di aver risposto alla sua domanda, eppure dovetti farlo, a giudicare da ciò che accadde in seguito.

Stavo ancora parlando e bevendo quando si udì un terribile rumore di vetri infranti e una grossa pietra precipitò nella stanza attraverso la porta a vetri che dava sul giardino. Un attimo dopo la porta d’ingresso si spalancò e due ombre grigio-brune e ringhianti balzarono all’interno avventandosi sugli irlandesi. La mia sedia si rovesciò, e caddi in mezzo ai vetri sul pavimento appiccicoso di whiskey. Da quella posizione vidi Arregui entrare dietro ai suoi cani brandendo un pesante bastone.

Il pelato fece per estrarre una pistola da sotto la giacca, ma il vecchio pastore fu più veloce e gli assestò un violento colpo alla nuca.

Mi risvegliai sul divano. Dovevo essere svenuto un’altra volta. Ero tutto pesto e ancora ubriaco, il mio corpo dolorante mi faceva l’effetto di qualcosa di remoto e irreale. Provai ad alzarmi a sedere, ma la stanza prese a girare vorticosamente. Faticai a mettere a fuoco la faccia che mi si parò davanti. Era Tómas, che mi porgeva un bicchiere d’acqua. Avevo una sete tremenda e lo vuotai in un sorso solo.

«Rimettiti giù tranquillo, Peter» disse Tómas.

«Dove sono andati?»

«Due sono scappati. E papà ha trascinato fuori il terzo. È morto.»

D’un tratto ricordai.

«Stronzo!» gli dissi. «Maledetto stronzo che non sei altro!»

Lui indietreggiò di un passo. Avevo la mente lucida ed ero pieno di aggressività indotta dal whiskey.

«Non è come credi» disse lui.

«Mi hai dato in pasto ai tuoi amici terroristi dell’IRA, pezzo di merda» dissi.

«Non è come credi» ripeté lui.

Di nuovo provai a mettermi a sedere, ma fui assalito da un violento capogiro che mi costrinse a desistere.

«Devo telefonare» dissi.

«C’è tempo. Per ora rimani disteso. Ti hanno conciato per le feste.»

«Voglio un telefono!»

Con un sospiro lui mi porse il cellulare, ma non riuscivo a centrare i tasti, allora glielo restituii e gli dettai il numero di Don Alfonso a Madrid.

«Non risponde nessuno» disse Tómas.

«Che cos’è questa storia della valigia?» chiesi. «Perché volete sapere della valigia?»

«Quale valigia?»

«Da quanto tempo sono disteso qui?»

«Da un paio d’ore.»

«Merda!» dissi.

«Se sei vivo devi ringraziare mio padre. È sceso a valle prima del previsto, ha visto le macchine parcheggiate vicino alla curva. I cani erano agitati, allora è venuto a vedere come stavi.»

«Gli sarebbe bastato chiederlo a te. Avresti potuto spiegargli meglio di me quel che stava succedendo qui» dissi.

«Ti sbagli» si difese ancora lui.

«Rifai quel numero» ordinai.

Don Alfonso non rispondeva. Con l’aiuto di Tómas riuscii ad alzarmi e a raggiungere il tavolo della cucina. La stanza puzzava ancora di whiskey. Uno dei cani era seduto nel vano della porta, con gli occhi gialli seguiva ogni mio movimento. A un certo punto udii un fischio e il cane sfrecciò via.

«Dov’è Arregui?» domandai.

«Si sta occupando del cadavere» rispose lui con freddezza.

Mi fece sedere e mi mise davanti una grossa tazza di caffè nero.

«Preferirei un drink» mi sentii dire.

«Dopo. Su, bevi. Ne hai bisogno.»

«Tómas, perché volete la mia valigia? Perché non mi hai interrogato direttamente invece di aizzarmi contro quei ceffi dell’IRA? Credevo che fossimo amici.»

Ecco, pensai, mio malgrado ero scivolato nel tono di autocommiserazione tipico di chi beve. Per scrollarmelo di dosso presi un sorso del caldo, dolce espresso triplo di Tómas.

«Non erano dell’IRA» disse qualcuno alle mie spalle. Un ragazzo stava scendendo le scale dal piano superiore. Lo riconobbi dalla voce: era quello che nel cantiere di Renteria mi aveva assicurato che l’ETA non c’entrava con la morte della mia famiglia. Non poteva avere più di venticinque anni, il viso era pallido e affilato sotto i capelli a spazzola. Indossava un giubbotto di pelle nera sopra una T-shirt grigia.

«E così sei qui anche tu» dissi.

«È stato Tómas a chiamarci. Arregui e gli altri si stanno sbarazzando di quello stronzo. Gli altri due non usciranno da Euskadi. Devi pensare a cosa dirai alla polizia, tenendo conto di Arregui.»

«Non ho alcuna intenzione di parlare con la polizia. Chi era quello che Arregui ha ammazzato?» domandai.

«Non abbiamo trovato documenti. Aveva la testa rasata. Ti dispiace?»

Scossi la testa.

«Anche se speravo che fosse un altro» dissi pensando a Mister Manganello.

Il ragazzo venne a sedersi di fronte a me e accettò il caffè che Tómas gli tese. Si sporse sopra il tavolo e con tono serio dichiarò:

«Peter Lime, te lo voglio ripetere: non abbiamo avuto alcun ruolo nell’assassinio della tua famiglia. Né c’entriamo qualcosa con i tre fottuti irlandesi. Sappi che non sono membri dell’IRA, ma dei killer professionisti, dei free-lance le cui pistole e i cui pugni sono in vendita al miglior offerente. Non è la prima volta che si fanno vedere qui in Euskadi e si spacciano per quello che non sono. Non mi chiedere la fonte di queste informazioni perché non la rivelerò». Fece una pausa.

«A quale valigia alludevano? Io non lo so. Ma tu dovresti chiederti chi sia al corrente dell’esistenza di quella valigia e, soprattutto, cosa ci sia dentro di così importante da convincere qualcuno a sguinzagliarti dietro dei tipi del genere. Noi siamo estranei a tutta la faccenda. Tómas è tuo amico: si è precipitato qui non appena Arregui ha telefonato.»

Gli credevo. Mi guardò in silenzio per qualche secondo poi riprese.

«Se fossi in te, d’ora in avanti starei in guardia. Almeno fino a quando non avremo preso gli altri due. Ci penseremo noi a proteggere Arregui, anche se deve ancora nascere l’uomo che gli metterà paura.»

Quando si alzò feci per imitarlo, ma dovetti rinunciarvi perché mi girava la testa. Presi la mano che mi tendeva e la strinsi.

«Se verremo a sapere qualcosa, ci metteremo in contatto con Tómas. Ci interessa mantenere l’ordine nella terra d’Euskadi, e non dimentichiamo mai i nostri amici, né gli amici degli amici» disse.

Scivolò fuori nell’alba incipiente, come un’ombra che vivesse solo di notte.

Provai di nuovo ad alzarmi. Tómas si mise il mio braccio intorno alla spalla e mi sostenne mentre salivo le scale fino al piano di sopra. Poi mi aiutò a sfilarmi i vestiti sporchi e a entrare nella doccia. Il mio fianco sinistro era tutto un livido, e il viso, che avevo visto di sfuggita nello specchio, una maschera tumefatta.

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