Mi svegliai di soprassalto.
La guardia grassa era sulla porta. Aveva la faccia stravolta. Ero fradicio di sudore, il cuore mi martellava in petto e mi sentivo la testa come attraversata da una corrente elettrica mentre lottavo per mettere in fuga l’inconscio. Mi rizzai a sedere e appoggiai i piedi sul pavimento.
«Mi scusi, Señor Lime, se l’ho spaventata» disse l’agente. Era la prima volta che udivo la sua voce e ne fui sorpreso. Mi ero aspettato un basso profondo, le consonanti dure dei madrileni, invece aveva una vocetta fina e acuta, dall’accento si sarebbe detto originario dell’Estremadura.
«Non fa niente» dissi raccogliendo i capelli nel codino.
«La prego di seguirmi» disse.
Quell’improvvisa gentilezza mi insospettì.
«Che ore sono?»
«Le sette e qualche minuto.»
«E così mi lasciate andare. Il giudice s’è alzato presto!»
«Mi segua, Señor Lime» disse lui.
«Per fare che? Dove?»
«Due amici sono qui per vederla. Venga, adesso.»
Il suo faccione esprimeva sincero turbamento.
«Mi dia un minuto da solo.»
Uscì dalla cella lasciando la porta socchiusa. Mi liberai nel solito buco, mi gettai un po’ d’acqua in viso e abbottonai i jeans prima di infilarmi la camicia sopra la maglietta.
Seguii la guardia lungo il corridoio silenzioso. Salite le scale mi giunsero alle orecchie le prime note della sinfonia mattutina di Madrid e sorrisi fra me al pensiero che presto avrei rivisto mia moglie e mia figlia. Percorremmo un corridoio più ampio ed entrammo in un grande ufficio, dove il giudice attendeva dietro una scrivania. Di fronte a lui erano seduti Gloria e Oscar. Avevano l’aria di aver visto la morte in faccia. Gloria aveva gli occhi arrossati dal pianto, e, senza trucco, sembrava più vecchia di dieci anni. Oscar era come impietrito. Sulla scrivania del giudice notai un sacchetto di plastica trasparente contenente le mie cose: il portafogli, le chiavi, la Leica, il telefonino, l’accendino, le sigarette.
«Era ora!» esclamai. «Incominciavo a temere che aveste intenzione di lasciarmi marcire qui dentro.»
«Siediti, Peter» replicò mestamente Oscar.
La paura mi serrò la gola.
«È successo qualcosa ad Amelia?»
«Siediti» ripeté Oscar.
Allora Gloria si avvicinò a me e prendendomi per mano mi fece sedere su un divano di cuoio appoggiato contro la parete.
«Cosa c’è? Che è successo ad Amelia e Maria Luisa?» Gloria pronunciò con voce rotta le peggiori parole che abbia mai udito:
«Sono morte, Peter. In un incendio questa notte. È terribile…» Scoppiò a piangere, abbracciandomi e stringendomi con foga disperata.
Ricordo che vomitai. Poi solo buio e silenzio per un tempo che mi parve infinito.
Quando tornai alla realtà, ero ancora seduto sul divano con un bicchiere d’acqua in mano. Lo vuotai d’un sorso. Oscar, Gloria e il giudice mi fissavano pallidi e immobili come statue di cera. Assurdamente pensai che Gloria, nuda sotto la giacca chiusa da tre bottoni, aveva l’aspetto di un’adultera colta sul fatto dal marito geloso. Vomitando le avevo macchiato la camicetta, perciò se l’era sfilata.
Mi ritrovai in mano un altro bicchiere colmo d’acqua e Oscar ruppe il silenzio:
«Come stai?».
«Per l’amor del cielo, Oscar! Come vuoi che stia?» esclamò Gloria.
«Voglio sapere cosa è accaduto», pronunciai in tono innaturalmente calmo.
Il giudice si schiarì la gola.
«Señor Lime» disse porgendomi un foglio. «Le mie condoglianze. Qui ci sono i documenti per il suo rilascio. Il caso si chiude qui. Ha il diritto di intentare una causa per danni allo stato spagnolo per arresto e detenzione illegittimi. Le metto a disposizione il mio ufficio per conferire in pace con i suoi amici. Di nuovo, le più sentite condoglianze. Per favore, prima di andare, firmi qui.»
E con questo lasciò la stanza.
«Cosa è successo?» chiesi di nuovo. Ascoltai in silenzio e a occhi asciutti il resoconto di Gloria. Intorno all’una e mezzo del mattino nel nostro appartamento si era verificata una violenta esplosione. L’incendio che era seguito si era rapidamente propagato al resto del palazzo. Il tetto era crollato, tutti gli appartamenti devastati. Finora erano stati recuperati tredici corpi. Le due famiglie del piano di sotto erano riuscite a scappare insieme a quelle del terzo piano. I cadaveri erano stati portati all’istituto centrale di medicina legale e la polizia aveva avviato le indagini. Per il momento l’ipotesi era che si fosse trattato di un’esplosione di gas provocata da un vecchio tubo difettoso.
«Siete assolutamente certi che fossero in casa?» domandai.
«Purtroppo sì, Peter» rispose Gloria.
«Voglio vederle» sussurrai.
«Possiamo andarci subito» disse Oscar cupo. «Ma sarà straziante e…» non seppe continuare.
Accese una sigaretta e me la infilò in bocca. Mi circondò le spalle con un braccio e restammo seduti così, senza parlare, per qualche minuto. Fumavo meccanicamente e cercavo di convincermi del fatto che Amelia e Maria Luisa mi fossero state portate via. Davvero e per sempre. Non erano morte , no. La parola “morte” era troppo neutrale, descriveva un fatto naturale, inevitabile. Prima o poi la morte arriva per tutti. Mia moglie e mia figlia mi erano state rubate, rapite, ingiustamente, inspiegabilmente.
Il vuoto, il dolore e la rabbia montavano dentro di me togliendomi il fiato.
La grossa Mercedes 600 di Oscar era parcheggiata nel cortile della centrale. Mi sedetti accanto a Gloria sul sedile posteriore e Oscar mise in moto. Il poliziotto di guardia azionò la sbarra e uscimmo in strada. Era la libertà, ma libertà di cosa? Di tornare alla bottiglia? Di essere infelice per il resto dei miei giorni?
Davanti all’ingresso dell’edificio un drappello di fotografi e cronisti ci stava aspettando.
«Cosa significa?» domandai scioccamente mentre Oscar frenava bruscamente per non investire la folla.
«Quando abbiamo cominciato a telefonare in giro non ci è stato possibile evitare che la notizia del tuo arresto si spargesse. Circolano voci sulle foto del ministro…»
Le telecamere e gli obiettivi quasi toccavano i finestrini, come volessero accarezzarli. I giornalisti gridavano le loro domande: come stavo? Avevo commenti da fare? Pregavano che dicessi qualcosa, qualunque cosa! Centinaia di volte avevo visto una delle mie prede, innocente di qualunque crimine, cercare di sottrarsi alla curiosità della gente, coprirsi il viso con le mani. Quasi che l’assalto all’intimità generasse in chi lo subiva un senso di colpa spontaneo quanto immotivato. Ma io ero troppo infelice per avere reazioni di sorta. Mi sentivo semplicemente finito.
«Oscar, portami a Santa Ana» dissi.
«Là ci sarà ancora più gente.»
«Non discutere, Oscar. Fai quello che dice» intervenne Gloria.
«Okay.»
Suonò il clacson e avanzò cauto tra la folla di giornalisti, che si aprì come il mare davanti alla prua di una nave. I più solerti rincorsero l’auto per un tratto. Appena ebbe via libera, Oscar accelerò e in pochi minuti arrivammo a Plaza Santa Ana.
La piazza era transennata. Gli agenti ci fermarono, ma quando Oscar spiegò loro chi fossi ci fecero subito passare. Parcheggiò sul marciapiede e scendemmo dall’auto. Quattro grossi mezzi antincendio erano fermi davanti al mio palazzo. I lampeggianti azzurri parevano guizzi di fuochi d’artificio nella luce bianco-grigia del mattino. L’aria era fresca e il cielo coperto. C’erano diverse auto della polizia, e il lastricato della piazza era striato di rivoli d’acqua nera. Simili a ombre dell’inferno, i pompieri s’aggiravano per quella che fino a poche ore prima era stata la mia casa.
L’aria era impregnata di fumo e di un insostenibile lezzo di morte. S’udivano sibili, radio gracchianti e il crescendo delle voci di quanti, sul luogo di una disgrazia, dapprima tacciono sconvolti, poi cominciano a mormorare fra loro sempre più fittamente, incapaci di nascondere il sollievo, l’eccitazione di esserci, di esistere ancora.
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