Non aveva nessuna voglia di trattenersi. Qualsiasi diversivo contro la paura di volare, mentì spudoratamente a se stessa, era ben accetto. Con un lento movimento della gamba cercò di esibire ancora di più, tenendo lo sguardo ostinatamente fisso sul parabrezza, quasi che tutto il suo interesse fosse rivolto agli sfilacci di vapore che l’aereo perforava.
Non abbassò gli occhi nemmeno quando sentì una mano febbrile sul famoso confine tra seta e pelle, verso l’interno della coscia. Il suo sguardo aveva già individuato la leva per fare indietreggiare il sedile. La manovrò di scatto, senza una parola, lasciandosi andare languidamente sullo schienale, e guardò finalmente Kevin che, affidato il jet al pilota automatico, le si chinava sopra.
Inarcandosi, gli consentì di rialzarle la gonna fin sopra la vita, quindi seguì con lo sguardo i movimenti sempre più febbrili delle mani che le accarezzavano le cosce, infilandosi sotto gli elastici del reggicalze.
Scese con la destra a slacciargli la cintura e a sbottonargli i pantaloni dal primo all’ultimo bottone.
Non riuscì a trattenere un sospiro roco. Con la sinistra spostò di lato le mutandine di raso, di quel tanto che bastava perché niente più si frapponesse al contatto. Lo guidò con la mano, se lo sentì penetrare in corpo con l’impeto che ormai conosceva e che, aveva notato con qualche preoccupazione, stava minacciando di diventare una presenza fissa nei suoi pensieri.
L’aereo andava da solo. Per il momento, ogni paura di volare era vinta.
Zurigo. Clinica Conrad von Gesner.
«Sono stati loro», erano state le prime parole che Misha Ceorsky aveva mormorato, «i miei fratelli della Lobby di Trafalgar…»
Dopo venticinque minuti di faticoso monologo, interrotto soltanto da qualche rapida domanda di Oswald, l’alto dirigente bancario aveva perso definitivamente conoscenza, sprofondando nel coma irreversibile. Breil aveva chiamato immediatamente il primario, ma si era già reso conto che non c’era più niente da fare. Dieci minuti più tardi Misha Ceorsky fu dichiarato clinicamente morto. Oswald ne osservò a lungo il viso contratto, i lineamenti deformati dall’ultimo sforzo: quello per restare in vita il tempo necessario a confessare la sua colpa e aiutare a fare luce su un cupo mistero.
Quasi senza accorgersene si ritrovò disorientato sul viale alberato che attraversava il parco della clinica. L’auto della polizia era lì ad aspettarlo. Vi montò immerso in profondi pensieri. Dopo pochi minuti di riflessione decise che il suo programma avrebbe subito un cambiamento. Doveva andare in Israele e conferire con il primo ministro. Un argomento così scottante non poteva avere come unico custode e arbitro la sua persona.
Consultò febbrilmente il precisissimo orario mondiale delle aviolinee, di cui il servizio israeliano muniva ciascuno dei suoi affiliati ogni quindici giorni. Il primo aereo per Tel Aviv sarebbe ormai partito da Zurigo soltanto il mattino seguente. Troppo tardi. La Lobby di Trafalgar non sarebbe di sicuro rimasta a guardare. Ma da Francoforte, in serata…
Si fece lasciare in pieno centro, nella via più affollata che vide. Tagliò quasi di corsa per una traversa pedonale e poi per una seconda e una terza, a zig zag, sentendo strisciare rovinosamente sulla pavimentazione il pesante borsone, fino a sbucare in un’altra via su cui scorreva un tranquillo traffico di auto.
«Taxi», chiamò freneticamente. «Taxi!»
Rannicchiatosi in un angolo del sedile posteriore, per le cinque ore di viaggio non distolse un solo istante lo sguardo dallo specchietto retrovisore. Non erano seguiti. Ce l’aveva fatta.
New York. Palazzo delle Nazioni Unite.
Laura si spogliò, lasciando scivolare sulla moquette gli indumenti, e si infilò nella cabina della doccia, all’interno della toilette del jet, verso la coda del velivolo. Forse sarebbe arrivata al Palazzo di Vetro con i capelli ancora umidi, ma indubbiamente più fresca e rilassata.
«Vi trattate bene alla NASA, mi sembra giusto che il Congresso voglia tagliarvi i fondi», scherzò, rientrando nella cabina di pilotaggio ancora avvolta in un accappatoio pulito.
«Questo è l’aereo che utilizzano le alte cariche per i loro spostamenti», rispose Kevin, che si era rimesso ai comandi del velivolo. «Credo che me lo abbiano assegnato per non sfigurare, quando dovremo portare indietro con noi il presidente della commissione delle Nazioni Unite.»
«Il viaggio di ritorno sarà di sicuro molto meno appassionante di quello di andata», scherzò di nuovo lei, mentre si rivestiva.
La presenza della Grande Mela era segnalata nel cielo freddo e terso da una nuvola scura che ricopriva come un manto la città. Laura cominciava a distinguere le forme dei grattacieli in lontananza, quando l’ufficiale gracchiò, simulando un tono nasale: «Il comandante informa che tra dodici minuti atterreremo all’aeroporto La Guardia di New York. La NASA si augura di ospitarvi nuovamente a bordo dei propri aerei. Vi raccomandiamo di non dimenticare il bagaglio a mano e gli oggetti personali».
Un’ora e quaranta minuti più tardi, l’auto di servizio della NASA si fermava davanti all’ingresso principale del palazzo delle Nazioni Unite. Laura scese prima che il suo cavaliere fosse arrivato ad aprirle lo sportello. Sarebbero potuti sembrare due attori occupati nelle riprese di un film, piuttosto che due tecnici diretti a riferire a una commissione scientifica permanente.
Di lì a poco, seduta al tavolo circolare, Laura Joanson si sentiva davvero un pesce fuor d’acqua o, meglio, un’esperta di ricerche sottomarine in un simposio di astrofisici, come in realtà era.
Ognuno dei cinque uomini seduti attorno al tavolo aveva davanti a sé un dossier di trenta pagine, scrupolosamente redatto dal colonnello Kevin Dimarzio e poi tradotto con precisione impeccabile nella lingua madre di ciascuno dei presenti, massime autorità mondiali nella conoscenza del cosmo.
«La nostra commissione», esordì uno di loro, «ha esaminato con molto interesse la documentazione proposta, ma, pur condividendo alcune delle sue supposizioni, colonnello Dimarzio, siamo giunti a una conclusione molto diversa e più confortante. Non esistono possibilità che l’asteroide, ribattezzato con il nome di Leonard Speitz, possa entrare in rotta di collisione con l’orbita terrestre. Secondo i calcoli da noi elaborati, il corpo celeste dovrebbe transitare a oltre novecentomila chilometri dal nostro pianeta. Molto vicino, certo, ma non tanto da poter rappresentare una fonte di pericolo.»
«Signori», ribatté Kevin Dimarzio con voce ferma e sicura, «se fossero suffragate da certezze, le vostre teorie non farebbero altro che sollevarmi da un peso. Ma come è possibile formulare ipotesi senza un margine di dubbio? Chi può escludere l’intervento di eventuali fattori esterni, allo stato attuale ancora sconosciuti? L’asteroide Speitz-42 viaggia a circa duecentomila chilometri all’ora, e in questo momento dovrebbe trovarsi a metà strada tra l’orbita di Saturno e quella di Giove, a oltre novecento milioni di chilometri dalla Terra. I sei mesi che ci separano da un eventuale impatto sono a malapena sufficienti per organizzare un piano di difesa, mettere a punto una spedizione spaziale dotata di mezzi idonei per tentare di modificare la rotta del corpo celeste. Vi rendete conto di quel che potrebbe succedere se una sciagura di centosessanta chilometri di diametro si abbattesse sulla terra a quella velocità? Secondo il modello computerizzato che abbiamo sviluppato in laboratorio, oltre due terzi della popolazione terrestre non sopravvivrebbero all’impatto.»
Stranamente, il presidente della commissione, Gregory Bender, pioniere della messa a punto della bomba H e progettista e sostenitore dello scudo di difesa stellare, si teneva quasi in disparte. Dopo avere introdotto i due relatori ed espletato i convenevoli, aveva lasciato la parola al suo vice, un giapponese i cui toni supponenti stavano mettendo a dura prova la pazienza del colonnello Dimarzio.
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