Marco Buticchi - Le pietre della Luna

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Tre misteriose statuette d’oro risalenti alla Roma del I secolo d. C., un enigma archeologico che gli studiosi hanno inseguito per secoli tra indizi confusi, testimonianze remote, sparizioni e ritrovamenti. Ma perché, adesso, anche i servizi segreti delle grandi potenze sono così interessati a questa vicenda? E quali sono i fili nascosti che collegano il passato delle Pietre al loro presente? Un vertiginoso slalom di avventure tra l’antica Roma e i giorni nostri, tra galeoni spagnoli e navicelle spaziali, tra agenti del Mossad e affascinanti scrittrici.

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Nel suo petto sembrava essere scoppiato un incendio, ma in un lampo di rinnovata speranza sentì la morsa allentarsi. Fece ricorso alle ultime energie, divincolandosi e mulinando con forza le braccia per raggiungere la superficie.

Sentì cinque dita intrecciarsi a quelle della mano tesa più in alto, nocche fare forza sulle nocche. La mano del vecchio cristiano lo tirò verso l’aria, verso la salvezza, verso una luce che, per quanto scarsissima e lurida di esalazioni venefiche, era quella della vita. Il sorriso di Valeriano fu la prima cosa che intravide. Si sentì tirare verso una specie di camminamento lastricato, che si allontanava dal corso del fetido fiume sotterraneo.

Gli occhi gli bruciavano, il corpo doleva di cento piccole ferite, aveva il petto squassato dalla tosse, ma era libero. Ancora una volta, quale che potesse essere la divinità che lo aveva voluto, quale che potesse essere la nuova missione che gli era affidata. Anche se la conosceva già, mossa per mossa. Non poteva averne un’altra.

Cercò a tentoni il corpo del vecchio e lo strinse a sé in uno slancio di affetto e riconoscenza. Rimasero immobili in silenzio a lungo, cercando di recuperare le forze, finché non fu lo stesso Valeriano a incamminarsi, dimostrando di conoscere quel labirinto sotterraneo in ogni suo segreto. Di quando in quando si fermava, preso da un attimo d’incertezza davanti a una delle infinite diramazioni del dedalo, ma ogni volta imboccava risoluto una direzione, riprendendo ad avanzare con le mani protese davanti a sé. Senza di lui, Giunio sapeva che sarebbe rimasto là sotto chissà quanto tempo, e magari avrebbe finito con il riemergere proprio al centro di una piazza d’armi.

Di punto in bianco, tenue e lontano, comparve un filo di luce che ai loro occhi dolenti sembrò un faro. Pareva voler indicare loro la strada, sempre più preciso a mano a mano che avanzavano. Svoltarono ancora una volta, e finalmente il cunicolo cominciò ad allargarsi. L’ansa in cui si trovavano era illuminata da un paio di torce; una grata metallica sbarrava un passaggio.

Valeriano spostò uno dei cardini, e la griglia si mosse con un cigolio. Giunio capì che stavano per entrare in uno dei cunicoli sotterranei nei quali si mormorava che si riunissero i cristiani. Ne aveva sentito parlare spesso, ma non aveva mai prestato particolare fede alle voci.

Dopo pochi istanti dovette ricredersi. Non avrebbe mai immaginato che il sottosuolo della città potesse essere così popolato. Vide tempietti illuminati, effigi sacre, persone raccolte in piccoli crocchi nei punti dove le dimensioni delle gallerie lo consentivano. Dovevano avere un aspetto ben singolare, Valeriano reduce da anni e anni di segrete, lui ancora sanguinante per le percosse ricevute, e comunque dopo avere nuotato entrambi nelle fogne di Roma. Un giovane dai capelli castani si fece loro incontro, in guardia, scrutandoli con apprensione.

Improvvisamente il suo viso si aprì in un largo sorriso. «Ma io ti conosco», esclamò, rivolto al vecchio. «Sei Valeriano, cugino di mio padre. Tutta la famiglia ti credeva morto. Chi porti con te, cugino?»

«È Giunio della città di Luna, un mio compagno di sventura. Gli devo la vita e il successo della nostra evasione.»

«Sia fatta la volontà di Dio. Chiunque conosca la carità è nostro fratello», concluse pacatamente il giovane, indicando loro una polla di acqua fresca per dissetarsi e lavarsi.

Con quale ineffabile piacere sentirono quei rivoli gelidi e puliti sul corpo. Non avrebbero più smesso, bevendo l’acqua come se fosse un nettare, gustandone il sapore, riconoscendola per quella fonte di vita che è, gettandosela sugli occhi, inspirandola nel naso, usandola come linimento per le ferite.

Vennero rivestiti di abiti poveri ma puliti, e il giovane si offrì di fare loro strada. Quando giunsero in vista di un secondo tempietto cristiano, una visione fece trasalire Giunio: davanti a tre uomini vedeva una giovane vestale che parlava animatamente, accompagnando le parole con gesti ansiosi. Gli dava le spalle, e per un attimo ebbe l’illusione di avere ritrovato Clelia.

Gaia girò la testa proprio mentre il terzetto si stava avvicinando. Le ci volle qualche istante per mettere a fuoco le tre figure, ma poi, nonostante la scarsa luce e le ferite sul volto, in una di esse riconobbe Giunio della città di Luna, il gladiatore che era stato capace di infiammare l’animo di tutto il Circo e — come ormai sapeva fin troppo bene — anche il cuore della sfortunata Clelia.

«È il destino che ti manda, Giunio», esclamò con voce strozzata, senza preamboli. «Presto, presto! Clelia è in grave pericolo.»

«Calmati, vestale», replicò Giunio, incredulo, «riprendi fiato.» Poteva davvero essere che la sorte lo rimettesse così presto sulle tracce della donna della sua vita? Quali dei volevano… Quale dio…

«Sono Gaia, l’unica amica di Clelia da quando eravamo poco più che bambine», riprese la vestale con voce angosciata. «Abbiamo ricevuto i voti insieme. In questo posto sto rischiando la vita. Come tutti voi, del resto. Qualcuno potrebbe avere già riferito alla Vestale Massima che stavo cercando di mettermi in contatto con i cristiani. Ma siete la mia ultima speranza, gli unici che possono aiutarmi a salvare Clelia dall’essere sepolta viva.»

Uno degli uomini che la circondavano scosse la testa. «Noi non siamo un esercito in armi, non abbiamo dimestichezza con la lotta, non potremmo mai…»

«Dov’è», la interruppe Giunio, come impazzito. «Dov’è Clelia?»

«In questo momento si trova ancora nell’Atrium Vestae, sorvegliata a vista da un manipolo di guardie», rispose la sacerdotessa. «Ma domani mattina presto sarà portata sotto scorta al Campo Scellerato, perché venga eseguita la condanna.»

«Avete armi o spade in questi sotterranei?» chiese ancora Giunio, girando sui presenti uno sguardo carico di furore ma soprattutto di speranza.

«Calmati, Giunio», lo interruppe il vecchio Valeriano in tono pacato. «Usa il ragionamento. Non sarà certo con le armi che potremo sottrarre Clelia ai suoi carcerieri.»

15.

Zurigo. Dicembre 1995.

Oswald scostò la tenda e guardò fuori: il traffico ordinato di Zurigo scorreva sotto il cielo plumbeo di dicembre. Stava quasi sicuramente per mettersi a nevicare. Stipò le sue cose nel borsone da viaggio e chiuse la lampo. In quello stesso istante squillò il telefono.

«Stavo per lasciare la stanza, dottor Ceorsky», disse, non appena ebbe sollevato la cornetta. «Pensavo di fare un giro in città prima di recarmi all’aeroporto. Il mio volo per la Florida parte nel pomeriggio.»

«Può concedermi un’oretta, prima di partire?» chiese il presidente del Banco Cantonale con voce chiaramente agitata. «Dovrei dirle alcune cose in merito alla questione di suo interesse.»

Si accordarono per pranzare insieme in un ristorante del centro.

Key Biscayne. Miami. Florida. Museo dei Reperti Sommersi.

Kevin Dimarzio non conosceva sicuramente il fremito che prova ogni collezionista davanti a un’opera d’arte, altrimenti lo avrebbe immediatamente individuato nel sentimento da cui si sentiva prendere ogni volta che osservava le tre statuette d’oro. Per le Pietre della Luna provava un’attrazione irresistibile. Le sentiva familiari, amiche, riconosceva in loro l’arcana importanza che…

Nella sala del museo entrò Laura, interrompendo le sue riflessioni. «Pochi minuti e sono pronta, Kevin», disse.

«Non preoccuparti, Laura, sono talmente preso nell’ammirazione per questi oggetti che il tempo sembra non esistere.»

«Mi sono informata sulle Pietre della Luna, o almeno sulla loro storia recente. Furono regalate a Hitler nel 1928 da un amico: Siegfried Sachs, erede dell’impero tedesco dell’acciaio. Sembra che il Führer fosse molto affezionato a quelle statuette, che compaiono tra l’altro in diverse foto del dittatore ripreso nel suo studio. Sachs, invece, nonostante l’amicizia con quello che sarebbe diventato l’uomo più potente e spietato del suo secolo, nel 1942 fu chiuso in un campo di concentramento, dove letteralmente scomparve. Le sue aziende vennero nazionalizzate e completamente asservite alle esigenze di una Germania impegnata nello scontro bellico con il mondo intero.

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