«Il caso Sachs viene ricordato spesso dai biografi per sottolineare il cinismo del Führer. È provato che il gruppo Sachs è stato uno dei più importanti finanziatori del partito nazionalsocialista, ma il presidente dell’impero dell’acciaio ne ha ricevuto in cambio soltanto deportazione e morte. E stupisce l’accanimento con cui è stato perseguitato Siegfried Sachs. Era ospite del Führer nella residenza della Foresta Nera, e soltanto una settimana dopo è stato prelevato nel suo ufficio da un maggiore delle SS per essere internato la notte stessa in un campo di concentramento.»
«Può darsi che la fama di conquistatore di Sachs avesse fatto breccia nel cuore di Eva Braun», replicò Kevin scherzosamente. «Vedo comunque che la raccolta di informazioni sta facendo passi da gigante.»
«Sono ormai otto mesi che mi trovo coinvolta in questa storia, Kevin, e un certo contributo penso di averlo dato anch’io, nonostante i miei limiti di donna», ribatté la giovane, scoccandogli uno sguardo carico d’ironia. Quindi, mentre il colonnello le rispondeva con un sorriso franco che metteva in risalto il candore dei denti nel viso abbronzato, continuò:
«Quello a cui proprio non riesco a risalire, però, è il vero segreto di quelle statuette d’oro. Che cosa sono? Qual è la loro origine? Dove sono state, nei secoli precedenti il momento in cui Sachs le ha regalate a Adolf Hitler? Penso che prima o poi dovrò fare un viaggio nella bella Italia dei tuoi avi, Kevin».
«Sarò felice di accompagnarti, Laura», replicò lui galante, abbozzando un inchino.
«Sono pronta», annunciò lei dopo qualche minuto, rientrando nella sala del museo dove aveva lasciato il colonnello.
Kevin Dimarzio non poté trattenere un moto di ammirazione, vedendola così sicura, slanciata ed elegante nel suo tailleur di lana.
«Hai fatto bene a coprirti», commentò, incapace di trovare altri argomenti. «Sembra che a New York la temperatura sia un bel po’ sotto lo zero.»
Zurigo.
Seduto in un salottino riservato del lussuoso ristorante che gli era stato indicato, Oswald Breil era al secondo Martini: un ritardo di mezz’ora non sembrava il comportamento tipico del presidente di una banca, per di più svizzera.
I due agenti della polizia elvetica improvvisamente comparsi sulla soglia presentarono il tesserino prima di esprimersi con parole.
«Il dottor Ceorsky ha avuto un grave incidente», lo informò senza preamboli uno dei due. «Ha detto che ha assolutamente bisogno di parlare con lei, dottor Breil. La preghiamo di seguirci. Dobbiamo fare presto, temiamo che le ferite riportate non gli lascino molto tempo.»
Oswald balzò in piedi con la solita insospettabile agilità e li seguì con i suoi passettini veloci. Lungo il tragitto, che l’auto percorse a forte velocità con le sirene spiegate, fu informato che un pirata della strada, riuscito a dileguarsi, aveva investito Misha Ceorsky negli immediati pressi della banca, provocandogli gravi lesioni interne.
Nella lussuosa clinica nascosta tra i pini, dove il presidente della banca aveva chiesto di essere ricoverato, furono immediatamente introdotti nello studio del primario. La sua espressione lasciava poche speranze. «Lei è un parente?» chiese a Breil, alzandosi prontamente dalla scrivania e andandogli incontro. Una frase chiaramente di rito, pronunciata con un’espressione di circostanza.
«Il dottor Breil è la persona che il ferito ha chiesto di incontrare», spiegò uno degli agenti.
Il primario annuì. «Certo, certo, capisco, sono stato personalmente informato dal dottor Ceorsky, che tuttavia mi ha pregato di prendere qualche comprensibile precauzione. È in condizioni veramente disperate. Non può essere disturbato, né visto da nessuno. Ma mi ha chiesto di fare questa eccezione. Si accomodi, prego, signor Breil, la accompagno. Agisca tuttavia con grande delicatezza: temo che siano gli ultimi momenti di lucidità del poveretto.»
Il presidente della banca zurighese giaceva nel lettino di una camera, isolata nel cuore dell’elegante struttura medica e protetta da una triplice serie di pesanti porte di acciaio con serratura di sicurezza a combinazione digitale, che il primario fece scattare personalmente con pochi tocchi esperti delle dita.
Precauzioni eccezionali che non stupirono Breil. Andando a cercare Ceorsky nella sua banca, sapeva che rischiava di esporlo a un grave pericolo. In realtà non pensava di poter ottenere da lui la minima informazione. E, successivamente, si era caso mai meravigliato della leggerezza con cui l’alto dirigente bancario sembrava avere preso la questione, la tranquillità con cui aveva usato il telefono per invitarlo in un locale pubblico. Il suo apparecchio era con ogni probabilità protetto da uno scrambler contro le intrusioni indesiderate, ma non di sicuro il centralino dell’albergo.
L’unico rumore nell’ambiente asettico in cui entrò era il sommesso ronzio delle apparecchiature elettroniche di rianimazione. Sul viso tumefatto del banchiere erano ormai chiaramente dipinti i segni della morte.
Ceorsky aprì gli occhi, tentando faticosamente di alzare la testa dal cuscino. Con altrettanta fatica fece cenno ai presenti di allontanarsi, chiedendo con un filo di voce di essere lasciato solo con il visitatore.
Breil gli si accostò, pronto a raccogliere le sue rivelazioni, quasi sicuramente le ultime parole che avrebbe potuto pronunciare prima di morire.
South Miami. Sweetwater Military Airport.
Sull’aeroporto militare poco fuori Miami spirava una leggera brezza calda da sud. Il Grumman della NASA, fermo sulla pista di rullaggio, spiccava per il suo biancore in mezzo allo spartano monocromatismo militare degli apparecchi dell’Air Force. Salita a bordo, Laura si stupì nel constatare che non c’era equipaggio.
«Ti puoi accomodare nel salotto per i passeggeri, Laura», le disse Kevin, scorrendo rapidamente il piano di volo. Avrebbe evidentemente pilotato lui stesso l’aereo. «Oppure, se preferisci, puoi rimanere qui con me in cabina di pilotaggio. Scegli tu.»
Con un rapido cenno di ringraziamento, Laura passò nel salotto che le era stato indicato, dove sedette nervosamente su uno dei comodissimi sedili di cuoio. Ci mise alcuni minuti a vincere la naturale diffidenza che provava sempre nei confronti di qualsiasi oggetto capace di sollevarsi da terra, compresi gli ascensori dei grattacieli. Ma la curiosità finì per prevalere, mista a un vago senso di eccitazione che provava già da qualche minuto. Sistemati i suoi effetti personali nel comodo armadietto sopra la poltrona, puntò con espressione risoluta verso la porta che separava la cabina di pilotaggio dall’alloggio passeggeri. Il jet bianco con la striscia blu si stava già muovendo sulla pista.
Cercando di rendere ancora più risoluta la sua espressione, prese posto nella seggiola del copilota, trovò la cintura di sicurezza, la chiuse con uno scatto secco e sbirciò di sottecchi, alla sua sinistra, Kevin Dimarzio che stava comunicando via radio con la torre di controllo. Vide le sue mani forti ma affusolate premere sulle manette, e, evitando di guardare davanti a sé, avvertì che l’aereo si lanciava nella sua corsa verso il cielo. Il muso si sollevò da terra, mentre i tre reattori di coda scaricavano tutta la loro potenza. Sentì il rumore metallico del carrello che rientrava e quello dei flap che assumevano la posizione di volo.
Una volta in rotta, si accorse che i suoi movimenti agitati nell’angusto spazio di pilotaggio le avevano fatto risalire la gonna fin sopra il bordo delle calze nere che aveva indossato quel mattino. Con intenzione? si chiese. Nel senso delle calze nere. Chissà. Non aveva voglia di pensarci. Comunque non sistemò la gonna.
Finse anzi intrepidamente di non essersi accorta della vasta esposizione di seta nera, nemmeno quando vide gli occhi di Kevin Dimarzio fissarsi sul confine tra la seta e la carne, con un’espressione indecifrabile. L’altezza aveva acuito lo strano senso di eccitazione da cui era stata presa già nel momento in cui era salita sull’aereo, quando aveva scoperto che erano a bordo da soli.
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