«E quel viso!» stava continuando Fandler. «Era così bella da farmi quasi desiderare di essere una lesbica.»
Weiss abbassò il mento per far capire di aver inteso la battuta. «È stata qui circa tre mesi fa?» Voleva esserne certo.
«Direi di sì.»
«E ha comprato qualcosa?»
«Be’, certo, ecco perché me ne ricordo: ha comprato una parrucca.»
Weiss riuscì a rimanere ancora impassibile, ma dovette respirare a fondo. «Una parrucca?»
«Sì, una parrucca, e io mi sono chiesto perché una ragazza con simili capelli sentisse la necessità di coprirli.»
«Bene», disse Weiss, e pensò: è viva. Ne era certo ormai, se lo sentiva. Julie Wyant era viva. Aveva finto di suicidarsi, si era travestita ed era scappata.
«Ora che ci penso, ne ha comprate tre», aggiunse Fandler. «Una bionda e due brune, una con qualche colpo di sole color mogano. Le ha provate proprio qui», e così dicendo scostò una tenda lasciando vedere un piccolo spogliatoio con uno sgabello, un tavolino, uno specchio illuminato. Weiss osservò tutti gli oggetti e il cuore gli balzò in petto: lei si era seduta lì, si era guardata in quello specchio… ed era ancora viva.
«Ha detto una cosa veramente divertente», aggiunse Fandler.
Weiss lo guardò. «Cioè?»
«Stava provando la parrucca bionda e io gliela pettinavo, per vedere come andava. Lei studiava l’insieme, girando la testa da una parte e dall’altra. A un certo punto le ho chiesto: ‘Va tutto bene?’ perché sembrava così triste, terribilmente triste, come se stesse per piangere. E lei mi ha risposto — lo ricordo chiaramente — guardandomi nello specchio: ‘Sono sempre io, comunque’.»
Weiss diede un’ultima occhiata al camerino ripensando a Julie, con il cuore in gola.
«’Sono sempre io’», stava ripetendo Fandler, a bassa voce.
Il cellulare di Weiss cominciò a suonare, riportandolo alla realtà. Lo prese e disse: «Weiss».
«Sono Ketchum.» La voce dell’ispettore all’altro capo era chiara e decisa. «Vieni più presto che puoi al comando. Ti porto dal nostro uomo.»
Weiss si limitò ad annuire, poi ripose il telefono. Si fermò a guardare un’ultima volta il tavolino e lo specchio.
Sono sempre io, pensò.
Julie Wyant era viva.
Solo due ore più tardi, Weiss guardava fuori dal finestrino di un bimotore de Havilland che stava attraversando un sottile strato di nebbia prima di atterrare. Sotto di lui c’erano solo foreste a perdita d’occhio, una sconfinata macchia di un verde azzurrognolo che si perdeva nel mare.
«Spero che apprezzerai quello che sto facendo per te, Weiss», mormorò fra i denti Ketchum. «Ho dovuto promettere favori che neanche ti immagini. Mi sono quasi messo in ginocchio davanti a quei fottuti federali… e tu sai quanto li odio.»
Le lamentele dell’ispettore erano poco più di un brontolio sommesso. Nessun problema. Weiss comunque non lo ascoltava. Continuava a guardare fuori dal finestrino, con il mento appoggiato sul pugno. La nebbia era scomparsa e il campo d’atterraggio si stendeva davanti a loro, due piste incrociate in riva all’oceano.
Shadowman. Anche la nebbia nella mente di Weiss — un misto di impressioni, fatti, deduzioni — stava iniziando a dissiparsi e la vicenda acquistava contorni sempre più nitidi. Il senso di urgenza rasentava ormai la frenesia, tutta la frenesia che la sua natura solida gli permetteva di provare. Come il video in cui la ripresa di Julie Wyant che ammiccava allo spettatore si ripeteva ad anello, così il sogno a occhi aperti si ripeteva ossessivamente. Lui che saliva le scale e abbatteva la porta, la ragazza sul letto. I minuti contati.
Shadowman.
«Merda, come odio tutto questo», riprese Ketchum un momento dopo, una volta scesi a terra, mentre Weiss guidava l’auto noleggiata lungo la strada costiera. «Guarda», disse, indicando il panorama. La distesa azzurra del mare si confondeva con quella del cielo e appariva e scompariva secondo l’andamento delle curve. «Sto peggio su queste strade secondarie che su quel dannato aeroplano.»
Shadowman. Weiss era stato uno dei primi poliziotti ad arrivare sulla scena del cosiddetto massacro di South Bay. Era presente quando i sommozzatori avevano riportato a riva i corpi dei bambini. Se ne ricordava in particolare una, con il volto in parte sfigurato dagli spari, il corpo divorato dai pesci, ma un profilo ancora intatto, dolce, come se stesse dormendo.
Mi aveva detto che i giornali avevano creato la figura dello spietato assassino, che Jeff Bloom del Chronicle aveva parlato di un misterioso informatore. Quel personaggio, quel mostro dal nome melodrammatico, sarebbe stato un killer senza scrupoli, temuto dai suoi stessi mandanti, un uomo al quale non si poteva sfuggire, perché avrebbe inseguito la sua preda in capo al mondo, pur di concludere il lavoro. Questa era la versione di Weiss.
Ciò che non mi aveva detto — ma di cui avevo avuto notizia nei corridoi dell’Agenzia — era chi fosse l’informatore segreto di Bloom, il vero creatore del diabolico personaggio: un detective di polizia in contrasto con il suo dipartimento, che fingeva di non voler vedere. Un uomo che, alla fine, non sapeva più bene lui stesso se avesse inventato la figura di Shadowman o se ne avesse tracciato l’immagine traendola dai fatti.
E adesso Harry Eidder era morto, suicida. Peter Crouch era morto, ucciso nella sua cantina. E Julie Wyant era scomparsa.
L’uomo ombra, Shadowman, esisteva, che fosse reale oppure no.
«Ecco, iniziano i boschi», disse Ketchum, con evidente disapprovazione.
La strada piegava verso l’interno, allontanandosi dalla costa. Da lì in poi il paesaggio sarebbe stato sconfinato e selvaggio, completamente disabitato.
«Che posto di merda!» continuò Ketchum.
Weiss osservava la strada. Dopo qualche chilometro, gli alberi che la costeggiavano iniziarono a diradarsi e apparve una barriera di filo spinato. Poco dopo si stagliarono sul cielo le torri del carcere, al cui interno si distingueva l’ombra di uomini armati. Sul terreno al di sotto delle torri si vedevano le gabbie di cemento incastrate una nell’altra. Non c’era segno di vita, nessun movimento. Non un essere vivente.
«È il buco del culo del mondo», grugnì Ketchum, sconsolato. «Mi hai trascinato dritto in culo al mondo.»
Superarono una serie di controlli sia al cancello sia all’entrata dell’edificio. Guardie dall’aspetto truce li passarono al setaccio con metal detector così sensibili da rilevare quasi il ferro presente nel sangue. Poi un agente dal volto squadrato, grande come una montagna, li scortò fino alla prima barriera.
L’uomo restò fermo mentre un apparecchio analizzava l’iride del suo occhio destro. Si udì un forte ronzio e la pesante porta scorrevole si aprì. L’agente li fece passare e si ritrasse. Weiss e Ketchum si ritrovarono soli nel corridoio di uno dei blocchi, mentre la porta si richiudeva alle loro spalle, intrappolandoli.
Percorsero lo squallido passaggio in silenzio. Anche se abituato alla desolazione di quei posti, Weiss si sentiva sempre più oppresso a ogni passo, come se stesse abbandonando la luce e l’aria per scendere in una soffocante oscurità.
Anche Ketchum provava una simile sensazione e scuoteva la testa lamentandosi: «Mio Dio, credo che non ci sia niente di più sconfortante di questo posto».
Le telecamere li seguivano passo dopo passo, ma i due non incontrarono altre guardie finché non raggiunsero la porta di ferro del parlatorio. Qui, in una cabina dai vetri corazzati, c’era una guardia che li salutò con un cenno, senza sorridere. Poi si udì un altro assordante ronzio, e Weiss poté aprire la porta.
La stanza era piccola, con i muri di cemento e una parete, quella di fronte a loro, trasparente e, ovviamente, corazzata. Sui lati vi erano alcune sedie di plastica. Weiss e Ketchum ne presero due e si sedettero.
Читать дальше