A Spencer
Oggi io la chiamo l’Agenzia, ma il nome sulla porta era Weiss Investigations. Ho raccontato quelle storie così tante volte a mia moglie, ai miei figli, ai miei amici, che dire Agenzia è ormai più che sufficiente; sanno a che cosa mi riferisco.
Mi hanno a lungo sollecitato a scriverne. «Quando ti deciderai a fare qualcosa di serio?» mi dicevano. Intendevano un libro basato su storie vere, non i thriller di fantasia che scrivo abitualmente per guadagnarmi da vivere. Ma più cercavo di trovare il modo di raccontare dell’Agenzia, di Weiss, Bishop e tutto il resto, più mi convincevo che i fatti, per quanto reali, non sarebbero riusciti a riprodurre la verità di quell’esperienza. E adesso che mi sembra finalmente arrivato il momento giusto per mettere gli eventi sulla carta — i fatti reali che io ho visto o di cui mi hanno parlato e a cui, in qualche modo, ho assistito — mi ritrovo a plasmarli, a scriverli come un qualsiasi altro romanzo, inserendo dialoghi che non posso aver sentito e pensieri che non ero certamente in grado di conoscere, e persino alcuni eventi che potrebbero essersi verificati, o forse no.
Il rischio di tale metodo di lavoro è, naturalmente, che voi non mi crediate, che pensiate che la vicenda sia così «romanzesca» da essere inventata. E ciò sarebbe un peccato, poiché quanto leggerete per lo più è successo davvero. Non si tratta solo dei riferimenti ad avvenimenti e luoghi, ma anche delle questioni più profonde, quelle che riguardano i sentimenti e gli stati d’animo dei personaggi. Le persone coinvolte hanno condiviso gran parte di questa vicenda con me, e credo, all’epoca, di essere stato un buon confidente. Ero giovane, dopotutto, appena uscito dalla scuola, un avido ascoltatore. Inoltre ero uno straniero, uno dell’Est capitato sulla costa ovest, uno scrittore alle prime armi che aveva accettato il lavoro all’Agenzia solo per fare un po’ di esperienza e racimolare qualche quattrino. Non ero destinato a diventare un punto fermo nella vita di nessuno e avevo la qualità, che credo di aver mantenuto, di non giudicare i miei simili. Al contrario di molte persone che non esitano a condannare il comportamento altrui in ogni occasione, io non considero un uomo disprezzabile solo perché può essere stato intollerante o meschino, né tratterei una donna con minor rispetto solo perché ha agito in modo poco saggio o è stata causa della propria infelicità. Solo chi non ha mai sbagliato potrebbe forse giudicare Weiss, Bishop, Kathleen e i vari personaggi della storia. Spero che gli altri lettori, tanti o pochi che siano, riescano a simpatizzare con loro e persino ad apprezzarli, come è stato per me quando li ho conosciuti, tanti anni fa.
Uccidere la ragazza valeva quarantanove punti. Per molti versi, si trattava del lavoro più facile che l’uomo chiamato Ben Fry avesse mai fatto.
La vittima non costituiva un problema. Poteva essere chiunque: uomo, bambino… Una giovane donna era, in qualche modo, la soluzione che gli pareva più adeguata; ed era anche facile da scegliere. Imboccò la superstrada e raggiunse il grande magazzino Pennywise. Esplorò i corridoi per qualche minuto e la individuò nel reparto frutta e verdura. Giovane, attraente, piccolina, ben fatta. Indossava un tailleur e stava facendo la spesa per una persona sola. Esattamente il bersaglio che lui aveva in mente. La seguì fino a casa.
Nei tre giorni successivi ne spiò ogni movimento. La pedinò sino alla galleria d’arte dove lavorava e rimase a osservarla attraverso la vetrina. La ragazza rimaneva per la maggior parte del giorno seduta alla scrivania in fondo alla stanza, in un punto ben visibile dalla strada. A volte veniva raggiunta da un’altra donna, più anziana; in alcune occasioni si alzava per accogliere dei visitatori; di tanto in tanto scompariva nel retro. Ma la scrivania era il posto dove passava la maggior parte del suo tempo, da sola.
Quando la galleria chiudeva, alle sei, lei azionava il sistema d’allarme, abbassava la saracinesca e si recava in Market Street a prendere il tram che l’avrebbe portata a casa. La sera guardava la televisione e parlava molto al telefono, accoccolata vicino alla finestra. Non sembrava che uscisse spesso.
Un pomeriggio, mentre lei era al lavoro, l’uomo chiamato Ben Fry s’intrufolò nel suo appartamento. Esaminò i suoi abiti, i documenti, i file sul computer e tutto il resto. Scoprì che si chiamava Penny Morgan, che aveva ventitré anni e che era fidanzata con un giovane di nome David Embry, studente di dottorato all’Università della California a Los Angeles. I genitori vivevano a San Mateo con la sorella minore. Penny scriveva loro molte e-mail, così come a David e a un discreto numero di amiche. L’uomo chiamato Ben Fry trovò questi messaggi molto affettuosi e pieni di calore. L’idea che si fece di Penny fu di una persona entusiasta e allegra: nelle foto presenti nell’appartamento appariva sempre sorridente, con gli occhi pieni di luce e soddisfazione.
Pensò che gli ci sarebbero volute ancora due o tre settimane prima di essere pronto a ucciderla.
Così, mentre Penny Morgan andava al lavoro alla galleria d’arte, scriveva e-mail agli amici, trascorreva lunghe ore in amorevole conversazione telefonica con il fidanzato, l’uomo chiamato Ben Fry si preparava ad assassinarla. E lo faceva, come sua abitudine, con cura meticolosa. Si recò in aereo in cinque città diverse con cinque identità differenti. Si procurò parte del materiale in un posto, e il rimanente in altri luoghi. Usava sempre e solo i telefoni pubblici, raramente si serviva dei computer, e raramente si recava due volte dallo stesso fornitore. Non lasciava mai tracce.
L’anonimato era la sua religione. Nessun essere vivente conosceva il suo vero nome. Un uomo qualunque, così normale da sembrare invisibile. Trentacinque anni, più o meno. Alto quasi un metro e ottanta. Comuni capelli castani, occhi castani, lineamenti poco marcati e poco interessanti; un corpo tozzo, un po’ curvo. Non appariva forte, ma aveva un torace ampio e braccia muscolose, ed era più veloce di un serpente a sonagli, quando voleva. Non sembrava neanche intelligente, ma lo era; era di una scaltrezza e di una capacità analitica quasi maniacali. Si dilettava a esaminare le situazioni nei minimi dettagli, calcolandone tutti gli imprevisti, valutandone le molteplici possibilità… gli sembrava che questo esercizio lo mantenesse sano di mente.
Quando ebbe raccolto tutto il materiale necessario, tornò in città. Non aveva una casa, ma aveva affittato un monolocale di poche pretese nel Mission District. Lì, un sabato sera, sedette nudo sul bordo della branda. Sul tavolo al suo fianco aveva disposto diverse vaschette da laboratorio in acciaio. Contenevano aghi e siringhe immersi nel disinfettante. Il pavimento e i mobili erano ricoperti di plastica, per evitare macchie di sangue.
Indossò un paio di guanti chirurgici e prese una siringa da una delle vaschette; conteneva una dose di lidocaina. Infilò l’ago sottilissimo sotto la pelle rasata dell’interno coscia, in un punto morbido appena sotto i testicoli. Premette lo stantuffo lentamente, estraendo con cura l’ago in modo che l’anestetico penetrasse in tutti gli strati dell’epidermide. Ripeté l’operazione altre tre volte. Quando tutta la parte fu insensibile, prese da una vaschetta un altro strumento: un bisturi.
L’uomo esitò per un istante, con la lama tra le dita. Chiuse gli occhi; immaginò una torre. Era un esercizio che praticava da anni. Tutte le volte che si sentiva stanco e i suoi pensieri lo distraevano dal lavoro e dai percorsi analitici, quando un’emozione lo turbava, immaginava la torre e vi saliva. Dall’alto, oltre il parapetto, lo sguardo spaziava su una pianura: là c’era il rosso tumulto della vita. Nudità violacee e lacrime d’argento, grida d’agonia e risate impietose. Ma lassù lui rimaneva impassibile, immune, lontano da tutto. Sulla torre, ritornava a essere se stesso.
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