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Marco Buticchi: L'anello dei re

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  • Название:
    L'anello dei re
  • Автор:
  • Издательство:
    Longanesi
  • Жанр:
  • Год:
    2005
  • Город:
    Milano
  • Язык:
    Итальянский
  • ISBN:
    88-304-2018-2
  • Рейтинг книги:
    4 / 5
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L'anello dei re: краткое содержание, описание и аннотация

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Un attentato a New York semina il panico tra la popolazione, ma si tratta solo di un primo caso di una serie di agguati verso la popolazione musulmana. Il rivendicatore si firma “Giusto in nome di Dio” e imprime sulle sue lettere il sigillo a 6 punte del re Salomone. Si alternano quindi le vicende dei possessori dell’anello. Dalla Venezia del 1300 si passa al fronte carsico della Grande Guerra e poi fino alla dittatura di Ceausescu in Romania.Questi flash-back si alternano alla ricerca del “Giusto” da parte di Oswald Breil e Cassandra Ziegler. Dopo numerosi colpi di scena , intrighi di potere, di cui sono protagonisti anche personaggi realmente esistiti, i protagonisti riescono a scoprire la vera identità del “Giusto” e evitare l’ennesimo massacro.

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«Non vi illudete», disse Sciarra ai suoi in un momento di tregua, «i nemici si sono ritirati all’interno delle loro gallerie e balzeranno fuori non appena finirà il bombardamento.»

L’ufficiale non si sbagliava: il grosso delle truppe nemiche era al riparo nei cunicoli che si addentravano nelle profondità delle rocce. Per isolare dal freddo gli angusti rifugi, i soldati erano soliti rivestire con del legno le pareti rocciose, usando come intercapedine alcuni fogli di carta impregnata di catrame. Rispetto ai disagi delle trincee, i ricoveri offerti dalle gallerie apparivano come la più sfarzosa e accogliente delle magioni.

Le opere di scavo sarebbero diventate l’arma decisiva per le sorti di quella guerra senza fine. E i cunicoli, aperti con fatica sotto le postazioni nemiche, avrebbero dato vita a quella che sarebbe stata definita una «guerra di mina» senza precedenti.

Il tenente Cassali si alzò con la pistola d’ordinanza in pugno. Il silenzio delle vette si adagiava sulla scena palpabile come un sudario.

I fanti uscirono allo scoperto imbracciando i moschetti sui quali avevano innestato le baionette. Una nebbia leggera, in quella mattina del 18 ottobre 1915, rendeva ancor più irreali i preparativi dell’assalto.

L’urlo di battaglia si levò alto non appena i comandanti di plotone ordinarono la carica, e ruppe il silenzio che aveva avvolto le vette.

Il capitano Alberto Sciarra stava al centro della compagnia, armi alla mano.

I militari italiani non fecero che qualche passo, poi un inferno di fuoco si scatenò contro di loro, erigendo una muraglia invalicabile tra gli alpini e le truppe austriache.

«Lasciate che mi complimenti con voi, capitano Sciarra», aveva detto il colonnello Cantini, entrando nell’ospedale da campo.

Il capitano si era alzato dal capezzale del suo sottoposto e per pochi istanti aveva abbandonato la mano del tenente Cassali.

«Grazie, signor colonnello», aveva risposto Sciarra della Volta. Quindi, indicando i feriti attorno a lui aveva aggiunto: «Dobbiamo soprattutto al valore di questi uomini e di tutti i caduti sotto il fuoco nemico la riuscita dell’attacco».

«È vero, onore ai caduti e ai valorosi alpini», aveva convenuto Cantini con aria enfatica.

«Molti ufficiali sono rimasti vittima del fuoco austriaco, anche un mio valoroso parigrado, il capitano Martini, è caduto al comando della sua compagnia mentre stava difendendo una postazione strategica conquistata dai suoi uomini.»

Il colonnello fece un rapido giro dell’ospedale, ricavato nello slargo di una galleria. Si soffermò brevemente dinanzi ai feriti più gravi. L’alto ufficiale posò le mani sulla fronte di un ragazzo di diciotto anni che, al posto degli arti superiori, aveva delle bende intrise di sangue.

Alberto Sciarra ripensò all’adagio di chissà quale poeta: « …La guerra è bella… »

La stretta della mano del tenente Cassali lo riportò alla realtà.

«Ce l’abbiamo fatta, signor capitano, non è vero?» chiese Cassali con lo sguardo annebbiato e ormai fisso nel vuoto. «Ditelo voi ai miei genitori che ce l’abbiamo fatta.»

Il giovane tenente chiuse gli occhi per sempre.

Tabarqa, 1347

All’interno della propria tenda il guerriero giapponese, prima di cedere al sonno, si dibatteva tra dubbi e rimorsi.

Per lui la guerra doveva sottostare alle leggi dell’onore. E l’aver disseminato l’epidemia nella città sotto assedio andava contro le inflessibili regole del bushido , l’antico codice di comportamento dei samurai.

Quanto tempo era passato da quando Hito Humarawa era fuggito dal suo paese coperto dal disonore! Un’onta talmente vergognosa che, sebbene lui combattesse da tempo per i veneziani, nessuno in patria gli avrebbe mai più perdonato.

Ma mentre la stanchezza lo stava per vincere e i suoi pensieri si facevano sempre più confusi, un rumore all’interno della tenda lo riportò alla realtà e, prima che potesse rendersi conto di che cosa stesse succedendo, una voce ferma e forte lo destò del tutto.

«Sono io, Humarawa. Vengo in pace», disse la voce nel buio. «Prima di aggredirmi ascolta quanto ho da dirti. Nei miei confronti tu hai contratto il più indissolubile dei debiti: quello dell’onore.»

«Ti ascolterò, Muqatil», rispose Humarawa, che aveva subito riconosciuto la voce. «Ti ascolterò, mio onorevole nemico.»

Poco fuori, le sentinelle ignare e rese distratte dall’inattività dell’assedio si aggiravano tra i fuochi del campo. All’interno della tenda di uno dei comandanti della spedizione veneziana, due uomini si stavano confessando l’un l’altro sentimenti profondi e debolezze. La circostanza era singolare perché i due si combattevano ormai da tredici ininterrotti anni: ciascuno aveva come principale scopo della propria vita la sconfitta dell’altro.

«So», disse il saraceno, «che la vile idea di diffondere il contagio nella città assediata non è stata tua. Conosco il tuo valore e sono certo che tu non ricorreresti a certi odiosi espedienti.»

Il giapponese era seduto sul letto e aveva alzato la fiamma del lume a olio. Il cenno di diniego di Humarawa confermò al saraceno la sua estraneità a quella macchinazione.

Gli occhi color cobalto del Muqatil brillarono alla luce della lampada, mentre continuava: «Ritengo ormai inutile tacere. I pochi soldati rimasti ai tuoi ordini stanno solo aspettando che i corvi scendano sulla città a banchettare. Quello sarà il segnale che anche l’ultimo degli abitanti è stato colpito dalla peste. Almeno settanta soldati ogni cento sono già morti per l’epidemia. Tra le donne e i bambini la percentuale è molto superiore. Diletta, la donna che amo, non vedrà il sorgere del nuovo giorno. Ma io ti assicuro, Humarawa, che non morirò tra i versamenti dei bubboni, mentre la carne annerisce per la cancrena. Io voglio morire da guerriero, e a un guerriero mi rivolgo, in nome della lealtà».

«Vai avanti, Muqatil», disse il giapponese, senza distogliere lo sguardo dal suo avversario.

«Credo tu sia stata una delle prime persone a prendere in braccio mia figlia, quando, per ordine del padre di mia moglie, il perfido Campagnola, la sottraesti a sua madre Diletta. Io adesso ti chiedo di portare la mia Celeste in salvo, lontana dagli spettri di morte che aleggiano su Tabarqa. Tu non puoi sapere, Humarawa, cosa sia il contagio all’interno di una città assediata.»

La luce del sole illuminò il campo. Con lentezza rituale, Humarawa procedette alla vestizione, aiutato da Wu, il suo scudiero, intento a stringere i legacci di seta che assicuravano l’armatura da samurai al corpo muscoloso del giapponese.

Il sole era alto quando la porta principale della città si spalancò.

Il Muqatil cavalcava un purosangue nero. I pennacchi variopinti sulla sommità dell’elmo ondeggiavano scossi dal vento caldo proveniente dai vicini deserti.

Dietro al guerriero saraceno avanzava un gruppo di soldati in armi, pronti a morire combattendo. Erano gli unici abitanti di Tabarqa sopravvissuti alla peste.

Humarawa era schierato alla testa dei suoi. Levò la spada dinanzi alla maschera da guerra che portava. La lama della katana si arrestò all’altezza del viso, in segno di saluto verso l’onorevole nemico.

Il Muqatil, il volto segnato dall’incedere del male, rispose al saluto, preparandosi a quella che, forse, sarebbe stata la sua ultima battaglia.

Base aerea di Konya, 200 km a sud di Ankara, giugno 2002

Il rumore dei motori del trireattore Boeing della US Air Force le ronzava ancora nelle orecchie, e si sovrapponeva al sibilare del vento proveniente da sud.

Il colonnello Blasey sollevò lo zaino e si diresse risoluta verso l’edificio a destra della pista.

Il sergente Kingston accennò appena un gesto di cavalleria, offrendosi di trasportare il pesante bagaglio. Poi il corpulento sottufficiale scosse il capo: Deidra Curring Blasey era un ufficiale dei marine a tutti gli effetti, uno tra i più esperti ufficiali in servizio.

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