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Marco Buticchi: L'anello dei re

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  • Название:
    L'anello dei re
  • Автор:
  • Издательство:
    Longanesi
  • Жанр:
  • Год:
    2005
  • Город:
    Milano
  • Язык:
    Итальянский
  • ISBN:
    88-304-2018-2
  • Рейтинг книги:
    4 / 5
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L'anello dei re: краткое содержание, описание и аннотация

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Un attentato a New York semina il panico tra la popolazione, ma si tratta solo di un primo caso di una serie di agguati verso la popolazione musulmana. Il rivendicatore si firma “Giusto in nome di Dio” e imprime sulle sue lettere il sigillo a 6 punte del re Salomone. Si alternano quindi le vicende dei possessori dell’anello. Dalla Venezia del 1300 si passa al fronte carsico della Grande Guerra e poi fino alla dittatura di Ceausescu in Romania.Questi flash-back si alternano alla ricerca del “Giusto” da parte di Oswald Breil e Cassandra Ziegler. Dopo numerosi colpi di scena , intrighi di potere, di cui sono protagonisti anche personaggi realmente esistiti, i protagonisti riescono a scoprire la vera identità del “Giusto” e evitare l’ennesimo massacro.

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Il panico recitò per la seconda volta il suo copione da protagonista: come sul set di un film d’azione, centinaia di persone simili a comparse ripeterono i medesimi gesti di pochi minuti prima. La marea di gente impazzita prese a muoversi in maniera scomposta nel fuggi fuggi che seguì le nuove detonazioni, mentre gli agenti tentavano invano di mantenere l’ordine. L’uomo che aveva appena premuto il tasto del telecomando si mescolò alla folla e raggiunse la Quarantatreesima. Stava fiancheggiando il Ford Foundation Building quando si fermò a osservare un corteo di mezzi di soccorso che avanzava ad alta velocità nel traffico cittadino, accompagnato dall’urlo lacerante delle sirene. Pareva si stessero dirigendo verso l’Upper East Side e non già verso il Palazzo di Vetro, come sarebbe stato logico: sotto la barba rada, il viso dell’attentatore si distese in un’espressione soddisfatta. I mezzi che accorrevano verso un’altra zona erano la prova della riuscita dell’intero suo piano: anche la sede della rappresentanza diplomatica irachena, sulla Settantanovesima, era saltata in aria nello stesso istante in cui il dodicesimo piano del Palazzo di Vetro veniva squarciato dalle esplosioni.

Fronte dolomitico, giugno 1915

L’ufficiale italiano non si scompose mentre la fanghiglia scura gli imbrattava la divisa. Le scarpe da montagna erano ricoperte dalla melma che le ruote dell’affusto sollevavano durante la salita.

Una trentina di fanti arrancavano lungo la mulattiera trasportando il potente cannone da montagna da 75 millimetri, il cui peso era di oltre due tonnellate. Il fango lasciato dalle recenti piogge rendeva ancor più ardua la salita.

«Durerà poco», disse tra sé l’ufficiale, reprimendo un’imprecazione mentre di nuovo la gamba si immergeva nel fango quasi sino al polpaccio. «Dicono che questo balletto durerà poco. Non credo, la guerra non conosce il ‘poco’, ma solo il troppo… come la morte.»

«Posso esservi d’aiuto, signor capitano?» chiese preoccupato il giovane tenente, mentre il suo superiore scivolava pericolosamente vicino alle ruote dell’affusto, cinte da pattini in legno simili a cingoli.

«Lasciate perdere, tenente, e datevi da fare. Il convoglio deve raggiungere le nostre trincee prima che cali la notte. Se il maltempo dovesse coglierci di sorpresa sarebbe grave: la montagna non conosce stagioni e le tempeste estive non sono meno pericolose di una tormenta invernale.»

L’ampia vallata si stendeva sotto di loro e i tetti spioventi di un gruppo di case strette attorno a un bianco campanile sembravano sfidare il cielo terso e caldo della giornata estiva.

Cortina d’Ampezzo era stata occupata dalle truppe italiane negli ultimi giorni di maggio senza che fosse sparato un solo colpo: gli austriaci se n’erano andati come se ritenessero ininfluente quella postazione. Otto fanti della brigata Marche erano quindi entrati nel paese quasi deserto nella giornata del 28 e avevano inalberato un solitario tricolore dinanzi al municipio.

Nessuno tra gli abitanti di Cortina — gli asburgici avevano reclutato forzatamente ogni uomo di età compresa tra i sedici e i cinquant’anni — aveva accennato la minima reazione di fronte a una testa di ponte forte di ben otto militari! Si sarebbe detto che quel lembo di terra, giudicato essenziale per qualsiasi tentativo di avanzata, non suscitasse alcun interesse strategico.

Questo poteva essere uno dei motivi per cui, tra gli ufficiali impegnati sul fronte dolomitico, serpeggiava il convincimento che quella non fosse una vera e propria guerra, bensì uno scambio di cortesie tra truppe nemiche, alimentato dal volere dei potenti impegnati a ridisegnare i confini delle loro nazioni.

Il generale Cantore, diretto superiore del capitano Alberto Sciarra della Volta, aveva confessato a quest’ultimo quanto il presidente del Regio consiglio dei Ministri, Antonio Salandra, andava dicendo ai suoi più stretti collaboratori: «La guerra non andrà oltre l’inverno. Per questo motivo ritengo pressoché inutile approvvigionare le truppe a guardia dei valichi alpini».

«Già… i potenti… i loro giochi e i loro errori.» Pensando a ciò della Volta scosse il capo.

Il vento gelido della sera preannunciava l’avvento di un’altrettanto gelida notte. Le Dolomiti si andavano dipingendo dei riflessi rossi del tramonto estivo. Più in alto, le nevi eterne riflettevano i raggi dell’ultimo sole. Le rare nubi sembravano illuminate dall’interno, tanto brillava il loro soffice candore. Lo spettacolo della natura era tale da far dimenticare la paura.

Ma la realtà era assai meno poetica: la guerra, la Grande Guerra, che i fanti intirizziti e male equipaggiati si apprestavano a combattere, si annunciava cupa e senza fine, nonostante ogni ottimistica previsione di ministri e generali.

Tabarqa, 1347

Il dolore, la malattia e la morte altro non erano che l’estrema beffa per chi, in preda al terrore del contagio, aveva ripudiato affetti e amicizie nella vana speranza di essere risparmiato dall’epidemia.

Ma la peste non ha occhi né cuore e colpisce alla cieca, lasciando dietro di sé agonia e desolazione.

Quasi a ogni crocevia della città ardevano le pire sulle quali venivano deposti i cadaveri. Il fuoco veniva costantemente alimentato: quella era l’unica arma capace di sconfiggere il male. Se mai fosse stato possibile sconfiggerlo.

Fuori delle mura il nemico restava in paziente attesa: i cristiani avevano ridotto al minimo gli assalti alla città saracena assediata. Il contagio e il tempo avrebbero ben presto piegato l’eroica popolazione di Tabarqa, meglio di cento eserciti in armi.

Per questo il grosso del contingente cristiano aveva abbandonato il campo. Era inutile tenere inattivi migliaia di soldati, mentre la città araba veniva divorata dalla peste.

Il Muqatil si affacciò dall’alto delle mura: dove una volta torreggiavano le macchine da guerra nemiche, adesso si distinguevano ampi spiazzi di erba ingiallita, mucchi di rifiuti e tracce dei fuochi dei bivacchi. Poco lontano, al posto dell’accampamento che aveva ospitato migliaia di uomini armati, si stagliavano alcune tende, meno della metà di quelle che avevano originariamente dato rifugio agli assediami.

Il guerriero saraceno scosse il capo: aveva rischiato la vita per mare e in battaglia mille e mille volte, ma non avrebbe mai immaginato di morire divorato dalla peste.

Tabarqa era ormai un gigantesco rogo. Gli avvoltoi che l’assediavano dovevano soltanto accertarsi che nessuno abbandonasse la città: l’epidemia avrebbe concluso l’opera di distruzione al posto loro.

Il Muqatil indirizzò lo sguardo agli uomini che presidiavano le mura. A ogni sorgere del sole alcuni dei suoi valorosi mancavano all’appello: il morbo inesorabile non si arrestava dinanzi al valore in battaglia, ma colpiva indiscriminatamente chiunque. Anche chi non aveva mai esitato di fronte alle armi spianate del nemico.

Il Muqatil si volse verso Celeste, la figlia del suo amore. Gli occhi profondi e blu della bimba si specchiarono per un istante in quelli pressoché identici del padre. Poi la piccola riprese a correre lungo i camminamenti, seguita da una balia ormai esasperata dalle ristrettezze dell’assedio e dal terrore dell’epidemia.

Tutto era iniziato quando i veneziani avevano lanciato all’interno delle mura il capo reciso del cadavere di un contagiato. Nell’istante del lancio, poco distante dalla catapulta, il Muqatil ricordava di aver visto il suo acerrimo nemico scuotere il capo. Hito Humarawa era fedele al codice d’onore della sua gente: un samurai non avrebbe mai usato un sistema tanto abietto per prendere una città. Il guerriero giapponese era stato suo avversario per buona parte della vita, un avversario leale sino all’estremo sacrificio, il nemico che ogni soldato vorrebbe battere con le armi in pugno.

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