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Marco Buticchi: L'anello dei re

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  • Название:
    L'anello dei re
  • Автор:
  • Издательство:
    Longanesi
  • Жанр:
  • Год:
    2005
  • Город:
    Milano
  • Язык:
    Итальянский
  • ISBN:
    88-304-2018-2
  • Рейтинг книги:
    4 / 5
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L'anello dei re: краткое содержание, описание и аннотация

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Un attentato a New York semina il panico tra la popolazione, ma si tratta solo di un primo caso di una serie di agguati verso la popolazione musulmana. Il rivendicatore si firma “Giusto in nome di Dio” e imprime sulle sue lettere il sigillo a 6 punte del re Salomone. Si alternano quindi le vicende dei possessori dell’anello. Dalla Venezia del 1300 si passa al fronte carsico della Grande Guerra e poi fino alla dittatura di Ceausescu in Romania.Questi flash-back si alternano alla ricerca del “Giusto” da parte di Oswald Breil e Cassandra Ziegler. Dopo numerosi colpi di scena , intrighi di potere, di cui sono protagonisti anche personaggi realmente esistiti, i protagonisti riescono a scoprire la vera identità del “Giusto” e evitare l’ennesimo massacro.

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La mano che aveva collocato l’esplosivo all’interno del Palazzo di Vetro e negli uffici della rappresentanza irachena stava concludendo il suo primo messaggio. Per completare la rivendicazione mancavano soltanto le parole che avrebbero indirizzato gli inquirenti verso la nuova minaccia. Era lui a tenere i fili del gioco: una caccia nella quale la preda provava un perverso piacere nel sentire il latrato delle mute di cani sulle proprie tracce.

È lo stesso libro degli infedeli a indicare dove la mano della giustizia colpirà di nuovo:

«Egli è Colui che vi fa viaggiare per terra e per mare. Quando siete su battelli che navigano col buon vento, [gli uomini] esultano. Quando sorge un vento impetuoso e le onde si alzano da ogni parte, invocano Allah e Gli rendono un culto puro: ‘Se ci salvi, saremo certamente riconoscenti!’

«A causa dei loro peccati furono affogati e poi introdotti nel Fuoco, e non trovarono nessun soccorritore».

L’uomo stava per premere il comando di stampa. Poi, avrebbe chiuso la lettera in una busta e l’avrebbe spedita a un ufficio della sede centrale del Federal Bureau of Investigation. Copie identiche della stessa missiva sarebbero state inviate ad alcuni tra i più popolari organi di stampa, affinché il mondo intero potesse riconoscere la firma di quel gesto e di quelli che ne sarebbero seguiti. Il terrorista a questo punto si fermò e parve avere un ripensamento.

L’Anello dei Re riluceva sul piano della scrivania sgombra e ordinata. Le dita sottili si chiusero sull’antico manufatto, ne percorsero il cerchio d’oro massiccio, si soffermarono sul sigillo appartenuto al Re dei Re.

Mancava soltanto la firma e l’Anello dei Re la incarnava in maniera unica e inequivocabile. Di nuovo le dita corsero sulla tastiera: « Il Giusto in nome di Dio, questo sarà d’ora in poi il nome con cui mi conoscerete e questo il mio inconfondibile sigillo », scrisse l’attentatore a suggellare il suo messaggio.

Il sigillo di Salomone, re dei Giudei, colui che le Scritture descrivono come il saggio tra i saggi e il giusto tra i giusti, sarebbe diventato, da quel momento, il marchio del terrore.

Nella base di Camp Lejeune, nei pressi di Jacksonville, in North Carolina, erano impiegate circa centocinquantamila persone, tra dipendenti e militari in servizio effettivo. La zona circostante era di particolare bellezza: chilometri e chilometri di spiaggia incontaminata, e per questo eletta a riserva marina protetta, si affacciavano sull’oceano Atlantico.

Gruppi di giovani si assiepavano lungo le anse di sabbia chiara, sdraiati sotto un sole caldo o a cavallo di una tavola, pronti ad affrontare le onde dell’oceano. Molti avevano i capelli rasati e, quasi tutti, ostentavano tatuaggi fantasiosi sui fisici statuari. Non era difficile riconoscere in quei ragazzi i marine in forza alla vicina base di Camp Lejeune che frequentavano quelle stesse spiagge anche per i loro quotidiani addestramenti.

Il colonnello Deidra Curring Blasey guardò con indifferenza le reclute che si affannavano da diverse ore nella corsa, quindi entrò nel capannone 24, destinato al reparto artificieri. Un sergente maggiore basso, corpulento e dai tratti marcati le si parò davanti: nell’espressione del sottufficiale si leggeva un rispetto assoluto.

«Agli ordini, signore», disse il sergente con voce stentorea.

«Riposo, sergente, riposo…» rispose il colonnello Blasey.

«Se posso permettermi un’opinione, signore…» riprese la parola il sergente.

Il colonnello non disse nulla, ma col capo invitò il subalterno ad andare avanti.

«… Ci siamo, signore! Credo che tra poco dovremo controllare se nello zaino c’è tutto il necessario. Sento profumo di partenza…» L’espressione del sergente era raggiante, come quella di un bambino che si accinge a intraprendere il suo gioco preferito. E il gioco preferito del sergente Kingston era la guerra.

Deidra Blasey sorrise, mentre l’uomo la seguiva all’interno di un ufficio ricavato in un angolo del capannone 24.

Nella base di Camp Lejeune erano diverse migliaia i militari che venivano chiamati «soldati con la valigia». Si trattava di un contingente scelto, composto da marine e SEALS, sempre pronti a muovere nell’arco di due ore e in grado di restare anche per tre mesi, e in modo del tutto autosufficiente, sul luogo delle operazioni.

Il protocollo prevedeva in ogni dettaglio le attività da svolgere nell’evenienza di una partenza improvvisa: al fine di seguire gli interessi di ogni soldato, un ufficio legale si sarebbe occupato di far fronte a tutte le quotidiane incombenze che i militari in missione erano impossibilitati a portare a termine. La moglie del comandante della base, inoltre, avrebbe indetto riunioni periodiche dove, tra un biscotto appena sfornato e un tè caldo, avrebbe tenuto aggiornati i familiari dei soldati.

Deidra Blasey conosceva a memoria il protocollo: da tempo aveva perso il conto delle volte in cui era stata svegliata all’improvviso e imbarcata assieme ai suoi EOD (Explosive Ordinance Disposal), il gruppo scelto dei marine esperto in esplosivi di cui era a capo, su un mezzo militare in partenza verso una destinazione sconosciuta dove vigeva, si era appena spento o stava per accendersi, uno stato di guerra.

Fronte dolomitico, ottobre 1915

Il capitano italiano scosse la testa. Erano trascorsi diversi mesi dal 24 maggio 1915 e ogni ottimistica aspettativa sulla durata e sulla reale dimensione del conflitto si era disciolta come neve al sole. Già… la neve… Ancora pochi giorni e le sporadiche nevicate autunnali si sarebbero trasformate in incessanti tormente gelate, che avrebbero reso difficile la vita delle migliaia di uomini assiepati nelle trincee.

Il Piccolo Lagazuoi era del tutto simile agli altri picchi dolomitici che si stagliavano, nel loro intenso colore rosato, contro il cielo terso delle Alpi. Il massiccio del Piccolo — contornato dalle cime del Sasso di Stria, Falzarego, Col dei Bos, Tofana di Rozes e Grande Lagazuoi — si ergeva proprio in corrispondenza del passo Falzarego, e dominava l’intera valle percorsa dalla statale «Allemagna», a una trentina di chilometri da Cortina e a una settantina da Belluno.

Gli austriaci avevano costruito una serie di postazioni sulle pendici del Piccolo Lagazuoi: nella fascia che andava dai duemilatrecento ai duemilasettecento metri di altitudine gli austroungarici erano appostati all’interno di gallerie e trincee dalle quali tenevano facilmente in scacco le forze italiane.

«Riepiloghiamo, tenente Cassali», disse il capitano Sciarra. «Voi, al comando del vostro plotone, lascerete l’accampamento nella serata del 17. Con voi si muoveranno altri due reparti di alpini, provenienti da altre compagnie. Io assumerò il comando delle operazioni. I tre drappelli risaliranno i canaloni del passo Falzarego, arrampicandosi sulla parete orientale del Lagazuoi. Dobbiamo cacciare gli austriaci dalle loro postazioni e impossessarcene.»

Il tenente Cassali annuì in silenzio. Il capitano osservò gli occhi del giovane sottoposto: quel ragazzo, che proveniva da una famiglia borghese del Nord Italia, si comportava come un vero uomo, sebbene non avesse più di vent’anni.

Gli occhi azzurri del tenente sembravano cercare, in quelli del suo capitano, il coraggio che sarebbe stato necessario per balzare fuori dalla trincea e combattere corpo a corpo contro gli austriaci.

Alberto Sciarra parve accorgersi dello sguardo simile a quello di un cucciolo in attesa di una carezza. Così sorrise, appoggiò una mano sulla spalla del giovane ufficiale e disse: «Che Dio ce la mandi buona, tenente».

L’attacco fu preceduto da un nutrito bombardamento d’artiglieria.

Gli austriaci era come se fossero scomparsi dalle prime linee, mentre le granate cadevano quasi senza soluzione di continuità.

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